Florence Queer Festival
‘First time in drag’ intervista con Pietro Macaione e Paolo Fosca, regista e sceneggiatore
Cortometraggio in concorso al Florence Queer Festival
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2 ore agoon
First time in drag di Pietro Macaione scritto da Paolo Fosca è uno dei cortometraggi in concorso al Florence Queer Festival 2025, dal 26 al 30 novembre al cinema La Compagnia di Firenze.
Rico, persona non binaria, ha costruito nella sua casa la sua fortezza, circondatə dall’amore di sua madre e dellə suə amichə Andrea e Sara. Il sogno di fare drag la accompagna da tempo, anche se il futuro le fa paura. Un racconto toccante e delicato su cosa significa farsi largo nel mondo esterno, cercando di vivere, per la prima volta, la propria identità liberamente. (Fonte: Florence Queer Festival)
Nella cornice del festival abbiamo fatto alcune domande al regista e allo sceneggiatore di First time in drag.
Pietro Macaione e Paolo Fosca e il loro First time in drag
Com’è nata l’idea di questo cortometraggio?
Paolo: Tutto è nato grazie alla Scuola Volonté, perché è un corto realizzato durante la scuola di cinema che abbiamo frequentato insieme, io e Pietro. Ci interessava inizialmente capire cosa ci fosse dietro la maschera di una drag queen. Da molti anni lavoro in un locale queer di notte, che è diventato anche un po’ la mia famiglia e che Pietro conosce bene. Ci incuriosiva questa cosa, perché dal locale sono sempre passate un sacco di drag queen. E poi abbiamo conosciuto Rico, che non era una drag queen, ma avrebbe voluto esserlo. Ci siamo, quindi, interrogati su questo suo sogno e l’abbiamo seguita in questa piccola finestra della sua vita. Ed è stata sicuramente un’esperienza molto gratificante.
Io un po’ mi sono ritrovato nella vita di Rico ed è stato un po’ come specchiarsi. L’abbiamo seguita in questo suo percorso di costruzione di un personaggio drag. E poi abbiamo capito che in realtà quel suo sogno aveva un nucleo ancora più profondo che era quello della sua identità di genere, che in parte viene fuori nel corto.
Quello che poi, sia a me che a Pietro, interessava era un discorso molto più ampio. Credo che, oggi più che mai, sia molto importante rappresentare la comunità queer. Ultimamente mi sono capitati articoli in cui si nota sempre di più che i personaggi queer, non binari, trans, la comunità LGBT sta sempre più scomparendo dalle piattaforme in questo clima politico mondiale. Se l’unica cosa che posso fare è raccontare storie, e sicuramente sono molto grato a Rico perché è stata lei in realtà a raccontarmi la sua storia, continuo a farlo perché credo sia molto importante in questo periodo dare visibilità a fratelli e sorelle della comunità queer.
Pietro: Secondo me la storia di Rico è molto bella e interessante perché diventa anche universale. Non si può prendere solo dal punto di vista queer perché parla di quello, perché la ricerca di identità è qualcosa che riguarda tutti: tutti ci chiediamo chi siamo, cosa vogliamo fare nella vita, cosa vogliamo diventare. E Rico la troviamo che ha 19 anni e durante le riprese ne compie 20, quindi nel pieno di quell’età complicata per chiunque. Le riprese sono iniziato a maggio-giugno dell’anno dopo la fine del liceo, che già di per sé è un periodo complesso, quello nel quale ci viene chiesto cosa fare della propria vita. Rico in più ha questa difficoltà della questione dell’identità di genere, che, per me, in un certo senso, è quasi un vantaggio perché le persone come Rico che si fanno tutte queste domande sull’identità di genere sono portate anche a un’introspezione molto grande che non tutti fanno. Se c’è una crisi di genere siamo portati a chiederci chi siamo o che cosa vogliamo essere. Per me questo corto è un invito a chiederselo.
Poi a me Rico ha da subito colpito perché è una persona molto introspettiva, molto matura, nonostante l’età e con lei parlare è sempre stato molto stimolante tanto che il progetto stesso del documentario è stato molto condiviso perché ne abbiamo parlato anche con lei.
Per concludere, quello che volevo dire è che un aspetto che mi ha spinto a realizzare First time in drag è il fatto che secondo me questo documentario può essere utile perché molto spesso io sento che dall’esterno queste ricerche di identità e di genere vivono nello stereotipo della sofferenza che ne consegue e anche della solitudine. Invece Rico, nonostante tutto, non è solo perché ha un contesto intorno a sé che l’aiuta, che la supporta ed è una cosa che già 20 anni fa era difficile immaginarsi. Secondo me è molto importante anche scardinare questo pensiero.
Mai da soli
Visto che hai parlato del fatto che Rico non è sola, ma ha accanto gli amici e la mamma, vi chiedo una riflessione. Perché ho apprezzato molto il fatto che ci siano solo loro come personaggi secondari. Rico parla di sofferenze e problematiche, ma non si vede mai nessuno che potrebbe arrecarle queste problematiche. Si vedono sempre e solo persone che la sostengono. È quasi come fosse un diario nel quale annotare tutto ciò che di positivo accade.
Pietro: Il percorso di ricerca di sé stessi l’abbiamo visto come un’occasione perché l’abbiamo proprio usato come una scusa per approfondirci. Il cinema può aiutare a fare questa cosa, costringe un po’ a muoversi e infatti la mia sensazione è che il corto poi abbia aiutato anche un po’ Rico a fare qualche passo avanti nella sua ricerca, oltre che aiutare noi nelle nostre ricerche. Considerando il tema si poteva pensare a qualcosa di collegato all’estrosità, all’esagerazione, allo spettacolo, ma Rico è una persona così tanto introspettiva che sembra quasi un contrasto.
Paolo: Legandomi a quest’ultima cosa detta, siamo riusciti a parlare di drag in senso lato, senza paillettes e glitter.
Alla fine, in effetti, non c’è il momento in cui si esibisce. Vediamo la preparazione, l’idea, la voglia di essere drag, di poterlo dimostrare, ma alla fine non viene fatto vedere.
Pietro: È come se le drag fossero l’obiettivo finto, perché l’obiettivo vero è il processo che porta alla creazione del personaggio drag. Lei non riesce a creare questo personaggio drag, però riesce a capire che forse non vuole invecchiare come un uomo. Ed è questa la conquista, il suo vero obiettivo era quello. Il drag era un qualcosa che voleva fare, ma in realtà voleva arrivare a un’altra cosa.
A tal proposito c’è una frase che Rico pronuncia, sottolineando che lo fa perché ne ha bisogno, non perché ha coraggio e che comunque in tutto questo c’è una componente di ansia sociale.
Paolo: In relazione a questo passaggio devo dire che le persone che ti guardano dall’esterno, ti guardano e hanno la stessa reazione sei coraggioso. In realtà non si tratta di coraggio: io sono così, non è avere coraggio, è essere me stesso. Altrimenti non esisterei nemmeno.
Pietro: Io ho una coinquilina trans e con lei abbiamo spesso parlato di questo e una volta mi ha detto è come se ti facessero i complimenti perché bevi l’acqua. In realtà è un bisogno, non si tratta di una scelta.
First time in drag: un lungo prologo?
A colpire è anche la struttura del cortometraggio che, nonostante i 15 minuti di durata, è strutturato come un film completo, con un problema all’inizio, degli ostacoli e una conclusione. Allo stesso tempo, però, è anche un lungo prologo di una storia che merita di essere raccontata e di essere approfondita, magari con una seconda parte.
Paolo: Non ci avevo pensato, me lo stai facendo notare te adesso. E, col senno di poi, dal momento che sono ancora in contatto con Rico e so i progressi che ha fatto, a distanza di due anni vedere che il finale del corto in realtà è un bellissimo inizio è stato molto emozionante, come un cerchio che si chiude nel migliore dei modi. Poi per me è stato emozionante anche perché, scrivendolo, ho scoperto anche me stesso, nel senso che Rico non è stata la sola a raccontare questa storia, penso di poter dire che l’ho presa un po’ per mano in questo percorso, e anche personalmente lo ricordo come un periodo in cui, interrogando Rico, mi interrogavo anche su di me (che poi è quello che voleva fare Pietro nei confronti dello spettatore).
Pietro: Approfitto di questo spunto per dire che First time in drag è il primo corto che abbiamo fatto a scuola perché ne facciamo uno alla fine di ogni anno. Lo abbiamo fatto insieme e poi lui ha scritto altri due film per altri registi e io ho diretto due film con altri sceneggiatori. Questo cortometraggio, però, rientra in una trilogia, sempre venuta fuori a scuola, con gli altri miei due corti. La trilogia in questione è la trilogia del fallimento che nasce anche per dare dignità al fallimento, perché forse proprio con questi molto spesso ci rendiamo conto di cosa cerchiamo davvero. E poi anche perché secondo me il cinema, per come lo vivo io, serve per dare delle rivelazioni. Quello che cerco quando guardo un film è me stesso, cerco qualcosa che mi faccia capire qualcosa perché secondo me il cinema riesce anche a far sentire meno soli proprio perché si raccontano delle storie che possiamo sentire anche nostre. Riguardo al fallimento, poi, sono dell’idea che tutti per ora ci sentiamo dei grandi falliti, perché la società ci pone in una condizione in cui vogliamo sempre qualcosa di più e quindi non arriviamo mai a un vero raggiungimento, perché appena si raggiunge una cosa se ne vuole subito un’altra. Vorrei che questo cortometraggio avesse come altro messaggio centrale il fatto che il cinema debba creare comunità.