Uno schiaffo severo e privo di speranza al nostro presente, tale è la sensazione dinanzi a Post Truth, lungometraggio in concorso al Front Doc Festival di Aosta ad opera dell’artista turco Alkan Avcıoğlu.
Il documentario, realizzato in 15 mesi con filmati e brani interamente composti con l’intelligenza artificiale, fotografa spietato l’attualità, ove i concetti di realtà e verità hanno smarrito i loro significati.
Una citazione attribuita a Elias Canetti apre il vorticoso flusso di immagini che per quasi due ore trascinano in una dimensione “parallela” offrendo una nuova idea di cinema e inaugurando una tendenza che velocemente cambierà la concezione stessa di questa arte.
L’umanità, senza accorgersene, d’un tratto abbandonò la realtà. Questo lo spunto da cui prende il via la lunga riflessione sul complesso momento storico attuale, dominato dalla frammentarietà e da un totale scollamento con il dato reale, sempre più staccato dai fatti e unicamente connesso al dato emotivo.
L’amigdala – area del cervello che governa la sfera emotiva – è divenuta il filtro dominante per la lettura del mondo e ciò discende dal costante bombardamento a cui espone una tecnologia sempre più invadente e sovrana dell’esistenza.
I media, ormai unico strumento di lettura della realtà, solleticano freneticamente il nostro vivere e la Post Truth, post verità appunto, rovescia il piano fattuale, assecondando esclusivamente il dato alternativo.
Alkan Avcıoğlu – artista e critico cinematografico
Conduce nelle viscere marce della società passando attraverso questioni e immagini potentissime.
Da un lato i “Pensieri Lenti e Veloci” di Daniel Kahneman, Nobel per l’economia nel 2002, psicologo israeliano che, indagando i principi di automatismo e semplificazione che governano le azioni, aprì una nuova frontiera di marketing.
L’essere umano è svuotato di significati, autentica marionetta al servizio dei media, utente imperituro che risponde ebete agli stimoli, al pari dei cani negli esperimenti di Ivan Pavlov.
La metrica della rivoluzione industriale – retta da principi di efficienza, velocità, meccanicità – ha intriso la nostra essenza più profonda, svuotando qualsiasi spinta rivoluzionaria tesa a sopperire il nuovo ordine.
Incontri segreti tra tecnocrati spietati riformulano l’idea di mondo e, sopra ogni cosa, la parola “YOU” incombe con un finto protagonismo mentre soccombiamo in un continuo “Ctrl + Alt + Canc”.
L’informazione, tutt’altro che autorevole, rimbalza in una guerra di costanti contrapposizioni visive e verbali. Si rievoca l’immagine del povero pellicano intriso di petrolio ai tempi della guerra del golfo; fu simbolo di tragedia storica e crisi ambientale, ma poi si rivelò creato artificiosamente.
Post Truth fa sprofondare nella zona più estrema della società dello spettacolo formulata da Guy Debord; l’auto raffigurazione è al servizio del totalitarismo silente, la spinta economica autopropulsiva è la sola ragione di esistenza. Conta il singolo, vige l’isolazionismo.
Semplificare, prima di tutto. Ridurre qualsiasi cosa al sistema binario su cui regge il sistema. Bianco o nero. La complessità del cosmo appiattita da lavoratori sottopagati che modellano l’AI senza sfumature, offrendo risposte “comode”.
Si ricorda la piaga del ballo del XVI secolo: a Strasburgo, un’epidemia inspiegabile colpì le masse, che danzarono compulsivamente per giorni fino alle estreme conseguenze.
Corpi inconsapevoli si mescolano con frenesia, sguardi allucinati e movimenti schizoidi, forme disumane e prive di controllo, molto simili a noi tutti: la sequenza finale è inquietante.
Post Truth è una creazione conturbante
Rimanda liberamente ad Alphaville (Jean Luc Godard), Brazil (Terry Gilliam), Essi Vivono (John Carpenter) e Rosso Sangue (Leos Carax). Si nutre del suo stesso artificio, è lo specchio che si mette allo specchio.
Viene in mente la stampa di Obey Giant con la parola “truth” ridotta a brandelli; la verità è intorno a noi, o in noi, frammenti in un tritacarte.
Risuona Rainy Miller, “Fire, and Then Ashes”.
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