Festival dei popoli

‘Chi sale sul treno’ fede, memoria e viaggio secondo Valerio Filardo

Tra i titoli del Concorso Italiano al Festival dei Popoli 2025

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Un viaggio particolare quello raccontato da Valerio Filardo nel suo Chi sale sul treno

A 120 anni dalla partenza del primo Treno Bianco, il convoglio che accompagna malati e pellegrini dalla Sicilia a Lourdes rischia di scomparire, sopraffatto dalla velocità del mondo contemporaneo e dal declino delle pratiche religiose. (Fonte: Festival dei Popoli)

Nella cornice del festival, dove il film è stato proiettato all’interno del Concorso Italiano, abbiamo fatto alcune domande a Valerio Filardo.

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Valerio Filardo e il suo Chi sale sul treno

Come è nata l’idea di raccontare i treni bianchi verso Lourdes?

L’idea è nata con una memoria, in realtà, che è riaffiorata grazie a un racconto di una mia amica e che mi ha portato un po’ indietro nel tempo, perché i miei nonni hanno fatto questo viaggio tanti anni fa. Quindi sono tornato indietro nel tempo anche a livello di background familiare perché comunque la mia famiglia è molto cattolica e l’abbinamento è stato molto semplice, praticamente un tuffo nel passato che mi è servito per capire un po’ meglio con gli occhi di un adulto. Poi mi sono un po’ discostato da quel mondo, però mi è servito tanto questo lavoro per cercare di capire proprio quel mondo e capire anche meglio mia madre e mia nonna.

E immagino anche per collocarlo nel 2025 e capirlo nel contesto di oggi.

Sì, esatto. Anche perché quello che mi ha colpito subito è stato l’aspetto anacronistico del viaggio. Chiaramente se si pensa a una distanza che separa Palermo da Lourdes si pensa a un mezzo rapido e nel 2025, per esempio, a un aereo che impiega un’ora e mezza. È che non è soltanto un discorso di tempo, anche a livello economico costa molto meno fare un viaggio in aereo per raggiungere Lourdes rispetto a fare questo tipo di viaggio con questa associazione. Quindi quella è stata la scintilla che si è accesa, poi in realtà, facendo il viaggio, ho capito com’è ed è anacronistico, ma fino a un certo punto perché in realtà alcuni valori che vengono portati avanti da questa collettività non sono tanto datati (o almeno lo sono ma non dovrebbero esserlo). Mi riferisco a valori come quelli della socialità, della collettività, della comunione, dei valori positivi.

Il fatto che questi valori che dici non sono datati, ma fanno parte anche dell’oggi lo hai reso, in maniera cinematografica, unendo il materiale d’archivio alle riprese moderne. Addirittura i personaggi dell’oggi parlano sopra le immagini del passato.

La volontà era quella di creare un po’ una fusione, una confusione temporale. Non volevo scandire il tempo necessariamente con l’utilizzo dell’archivio e fare un lavoro didascalico che ci dicesse che nel passato si faceva in un modo e adesso no. Questo anche perché la sfera temporale è molto confusa all’interno di questo viaggio, si perde completamente la dimensione del tempo e ci si abbandona al suo fluire. È un viaggio molto lungo e uno perde ogni tipo di riferimento spazio temporale.

Il tempo

A proposito di questo, come ha influito il tempo nella realizzazione del film? Cosa ha comportato fare letteralmente il film durante un viaggio nel quale non sono previste le pause durante le riprese che potrebbero esserci in un qualsiasi altro film? Come ha influito questo nella struttura di Chi sale sul treno?

Devo dire che ho avuto la fortuna di partire con una troupe di colleghi che sono diventati anche amici ed erano molto disponibili a queste dinamiche un po’ anomale: si girava tanto tempo, poi c’erano dei momenti di pausa molto lunghi e prolungati, poi si riprendeva magari la notte e bisognava fare il risveglio all’alba. Produttivamente è stato molto complesso però era l’unico modo per riuscire a catturare questi vari momenti anche perché il tempo è estremamente fluido ed è scandito tramite momenti liturgici ben precisi che noi dovevamo cercare di rispettare il più possibile.

Poi anche logisticamente con le camere e tutti i corridoi molto stretti in questi treni un po’ datati. Soprattutto per il direttore della fotografia, per esempio, non è stato semplicissimo girare con una camera. Per fortuna grazie all’utilizzo di lenti anamorfiche, che hanno dilatato molto lo spazio che di per sé era molto verticale, hanno permesso di ampliare l’immagine. Così è stato possibile anche creare più piani focali e narrativi.

Le persone e i valori nel documentario di Valerio Filardo

Passando, invece, ai personaggi, così come il treno è un mezzo per tante persone, anche il film è corale nel senso che hai scelto di non focalizzarti su un singolo protagonista ma sull’insieme. Sappiamo tutto, ma alla fine non sappiamo niente di specifico di nessuno.

Ho cercato di concentrarmi su quelle che erano delle figure chiave che rappresentavano un po’ tutti i passeggeri. Innanzitutto l’unico elemento esterno ai passeggeri, che è anche uno dei protagonisti, è il responsabile del funzionamento del treno ed è una parte molto importante perché è lui che permette di traghettare tutti. Poi ho inserito quella che è la memoria storica di questo viaggio e che ha vissuto le varie evoluzioni e che è anche un po’ il punto di vista più disincantato, ma anche la coppia di amici che rappresenta, invece, la comunità che va avanti, che ci crede ancora e che sviluppa dei rapporti sociali.

Il viaggio, infatti, dà modo di sviluppare questi rapporti sociali grazie al tempo a disposizione. E a proposito del tempo all’inizio descrivi la preparazione del viaggio che non è concitata, ma è comunque dinamiche, poi, col passare del tempo, ti soffermi molto di più sui dialoghi tra alcuni personaggi.

Questo anche perché chiaramente, non essendo degli attori, non era semplicissimo far dimenticare la macchina da presa e quindi c’era bisogno di tempo e di una loro stanchezza affinché potessero dimenticarsi di noi e vivere la loro vita e il loro rapporto. L’occhio è un po’ l’occhio del treno che è nascosto, guarda e osserva.

Una riflessione più ampia

Secondo te si può fare una riflessione anche a livello geografico? Alla fine questo treno percorre tutta l’Italia da sud a nord, quindi è un modo per raccontare un paese in generale e come reagisce a un evento del genere?

Un tempo i treni erano più autonomi, ogni regione aveva il suo treno partiva e si fermava per i rifornimenti. Adesso è un po’ cambiato perché hanno bisogno di fare numero e quindi si fermano più spesso e in più punti. In ogni caso sì, è stato molto interessante scoprire questo cambiamento a livello geografico. Nel primo viaggio che abbiamo fatto, per esempio, ci siamo fermati in Campania con dei campani che sono saliti a bordo, poi ci siamo fermati nel Lazio con i romani, ma anche da un punto di vista fonico di dialetti, di volti.

Come dicevi all’inizio Chi sale sul treno non è solo il racconto di questo viaggio. Ci sono tanti temi all’interno perché, attraverso questo viaggio e le parole di alcuni dei passeggeri, si affrontano tante tematiche importanti. Come hai lavorato in questo senso?

Innanzitutto devo dire che abbiamo fatto un primo viaggio come sopralluogo, per capire che cosa fosse e abbiamo girato tanto durante quel primo viaggio, scegliendo quelli che poi sarebbero stati i personaggi protagonisti. Ma soprattutto abbiamo capito quali erano le reali tematiche e quali erano quelle un po’ più funzionali alla nostra storia. È stata una selezione non semplicissima anche perché, appunto, si abbracciano temi religiosi ma non solo, si va dalla mancanza di giovani alla crisi della fede, alla crisi della chiesa, a quella delle relazioni umane all’opposizione in qualche modo tra questo tempo lento del treno e il tempo frenetico della vita contemporanea.

E ci sono anche delle sorprese perché nel secondo viaggio abbiamo conosciuto casualmente Maria, di una dolcezza e di un’apertura incredibili. Veramente un personaggio genuino che è difficile trovare al di fuori di quel contesto.

L’obiettivo di Valerio Filardo

Senza cadere nella retorica, ma Chi sale sul treno sembra quasi la spiegazione cinematografica della frase Non è importante la meta, ma il viaggio. Anche perché dopo tutto quello che ci fai vedere il pubblico si aspetterebbe di vedere la meta, cosa succede e cosa fanno, ma questo non avviene.

Per noi era molto più importante quella dimensione del viaggio anche perché poi all’interno del santuario si aprono e si aprirebbero altre dinamiche e altri discorsi che non volevo affrontare.

Te lo chiedo anche perché mi è piaciuto molto il finale che in parte si può considerare aperto, ma in realtà è chiuso, anche fisicamente, dalla persona che non guida solo il treno, ma anche il film stesso, in qualche modo.

È un traghettatore come Caronte, ma lo possiamo considerare il nostro Virgilio perché è una sorta di guida.

Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli

Per l’intervista e le foto si ringrazia Davide Ficarola, Valentina Messina e Antonio Pirozzi, ufficio stampa del Festival dei Popoli

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