Festival dei popoli
Specchi e bugie bianche: Alba Zari si racconta in ‘White Lies’
Nel concorso italiano del Festival dei Popoli 2025
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4 giorni agoon
White Lies è il documentario di Alba Zari, presentato all’interno del Concorso Italiano al Festival dei Popoli 2025.
Il segreto delle origini di una ragazza venticinquenne, Alba/Dawn, è rinchiuso nella mente di una madre che non riesce a organizzare i propri ricordi e risolvere il rebus. La ragazza tenta di scavare in quel che resta di questa memoria frammentata per compiere un viaggio a ritroso, da Trieste a Bangkok, alla ricerca delle origini della sua famiglia, la nonna Rosa e la madre Ivana, così diverse tra loro, eppure unite da invisibili misteri. Man mano che approfondisce l’indagine autobiografica, Alba rivela gradualmente i contorni di un incubo angosciante, tra rivelazioni sorprendenti e verità indicibili, su una setta “mansoniana” – i Figli di Dio – che sfruttava la fede per circuire e sfruttare i suoi affiliati, in particolare le giovani donne. Al debutto nel lungometraggio, Alba Zari assembla un’opera audace, che elabora il dolore e si confronta con il rischio persistente di assimilare la tragedia, di normalizzarla, fino a non riuscire più a riconoscerla come tale. (Fonte: Festival dei Popoli)
Nella cornice del festival abbiamo fatto alcune domande ad Alba Zari.
White Lies di Alba Zari
Più che un documentario il tuo è un film di domande. Le poni allo spettatore per porle a te stessa. Secondo te si può dire che è quasi come se fosse un tuo diario intimo?
In realtà non lo so, perché questa domanda è iniziata molto prima di fare il film, più o meno in concomitanza con il mio lavoro da fotografa, prima ancora del mio lavoro da regista. E quindi sono domande che mi sono sempre fatta e ho avuto delle risposte da sola perché non avevo altri modi. Un po’ perché chi poteva darmele non mi dava delle risposte e un po’ perché la fotografia è un lavoro molto più solitario rispetto al cinema.
Con il tramite del film e del cinema le risposte me le danno gli altri. E per questo stesso motivo ero nel film, ho posto le domande alle persone a me più care, come mia mamma che è la persona a cui voglio più bene al mondo, ma che è anche la persona che mi deve spiegare perché non mi ha dato delle risposte. Forse direi che il cinema più che un diario, per me è (stato) un aver bisogno della risposta dell’altra persona.
Magari mentre lo scrivevo il film poteva anche essere un diario, ma mentre lo giravo non lo era più, e anche dopo è diventato una risposta dall’esterno. Naturalmente è comunque molto intimo, è la cosa più intima che abbia fatto e che mai farò. Infatti ho impiegato davvero tanto tempo nella preparazione, e poi ho avuto bisogno di qualcuno che credesse nell’investire in questo progetto. Non è un diario, ma è l’unico momento in cui mi sono riuscita a confrontare con le persone. Il film era una sorta di armatura per me, e tramite quello gli altri dovevano necessariamente darmi delle risposte.
Vorrei chiederti qualcosa in più sulla descrizione e sull’evoluzione della figura di tuo padre per la quale mescoli documenti d’archivio a immagini di silhouette rosa. Come hai lavorato in questo senso? A me ha ricordato un po’ Alina Marazzi e il suo riuso creativo delle immagini. Lei le fa parlare e gli dona come una nuova vita, te non fai proprio questo, ma ti metti a nudo con le tue fragilità e racconti qualcosa di intimo in una maniera tua personale.
Il mio lavoro fotografico nasce nel 2014, quello di Alina Marazzi ancora prima ed è bello questo parallelismo che hai fatto. Io sono proprio partita col dire che queste fotografie mi avevano mentito, mi hanno raccontato che questo è mio padre, ma non lo è e devo rielaborarlo. Quel lavoro, che nasce solo in modo fotografico, l’ho unito all’archivio del film, per poterlo rielaborare. Poi c’è da dire che il film è stato un processo durato otto anni e ci sono cose che non sapevo neanche sarebbero state inserite.
È stato un grande puzzle che poi ti ritrovi a sistemare col montaggio. Pierpaolo Filomeno, il montatore, è stato la persona più brava nel fare questo.
I rapporti familiari
Si può considerare un film sui rapporti familiari in generale? Nel senso che non c’è solo questa ricerca del padre, ma c’è anche un tentativo di capire la madre, per esempio, di allacciare una determinata comunicazione. È corretto? Anche l’omelia del prete parla di famiglia…
Assolutamente sì, è un film sui rapporti familiari. Perché poi la domanda chi è mio padre va a scemare, ed è questa la cosa interessante del film, della vita: inizi cercando qualcosa o qualcuno, volendolo/a assolutamente trovare (e io pensavo veramente di riuscire a trovarlo), quindi hai un’ossessione, ma alla fine ti ritrovi a dire questo è quello che ho. Ho mia madre, mia nonna, sono io, e devo arrangiarmi con quello che ho perché questa è la mia famiglia, questo è quello che mi hanno dato, queste sono le persone che ci sono, quindi quella domanda diventa solo il motore della ricerca del film. Poi si capisce che le cose importanti sono altre.
Prima hai parlato del fatto che con il film hanno dovuto necessariamente rispondere alle tue domande. A tal proposito ho apprezzato molto il fatto che quando interroghi qualcuno e le domande si fanno più incalzanti tanto da creare quasi disagio in chi risponde, arrivi a sfocare il volto come a fargli perdere identità.
Dal momento che si tratta di un documentario penso che in parte sia voluto e in parte no. Sicuramente è qualcosa che ha deciso il direttore della fotografia, anche perché io ero dentro ogni scena. La scelta di non girarlo io è stata proprio voluta fin dall’inizio: se io ho la camera in mano e la indirizzo verso mia madre, che è una persona fragile e che amo, non voglio ritrovarmi ad avere questa posizione di potere perché sono parte della famiglia. Il direttore della fotografia è molto sensibile a questi legami, e quindi è stata la sua sensibilità a decidere quando e come sfocare. Non penso siano 100% cose con un significato dietro, trattandosi, come detto, di un documentario, però sicuramente c’è anche questo significato. È una bella riflessione.
La conclusione poetica di Alba Zari
Ho trovato molto poetica la conclusione con te che dici di aver trovato il riflesso di te stessa e in qualche modo è quello che fa il cinema. In quanto spettatori vediamo qualcosa che non è nostro, ma nel quale possiamo identificarci, come se fosse il riflesso di quello che vorremmo.
Sì, in parte sì. Alla fine con il cinema lavori con dei professionisti, con delle persone e quindi diventi qualcos’altro. Per me White Lies non è un documentario di pura osservazione, ma è cinema. Non mi bastava più solo la fotografia, mi serviva un’evoluzione.
White lies sono le bugie bianche, quelle che dici a fin di bene, quelle cose che fai perché pensi non abbiano ripercussioni o comunque per il bene del prossimo. Perché proprio questo titolo?
Realizzando questo film, tra le tante cose, ho scoperto di non avere lo stesso padre di mio fratello e ho scoperto di avere un altro padre che mi ha firmato l’atto di nascita. E quando ho chiesto a mia nonna perché non mi hai detto la verità? mi ha detto ma sono delle bugie bianche, delle white lies. E credo sia anche un modo di rendere questa storia così pesante un po’ più leggera.
Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli
Per l’intervista e le foto si ringrazia Davide Ficarola, Valentina Messina e Antonio Pirozzi, ufficio stampa del Festival dei Popoli