Medfilm Festival

Tra fede e desiderio: ‘The Devil and the Bicycle’ di Sharon Hakim

Quando sessualità e colpa vanno in collissione

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“Ha imparato a fare il simbolo della croce, sa la differenza tra un buon vino e uno cattivo. Parla dolcemente e ride come dovrebbe.”

Dice Yasma rivolgendosi alla madre. È una frase che in The Devil and the Bicycle rappresenta il controllo, l’educazione al decoro, il tentativo di addestrare le donne a essere “come dovrebbero”. Ma cosa succede quando il corpo vuole ubbidire a se stesso, quando il desiderio si accende e le regole della purezza cominciano a vacillare?

Yasma ha tredici anni, vive in un piccolo villaggio libanese mentre si prepara alla prima comunione assieme alle altre ragazze. È figlia di un matrimonio misto: madre musulmana, padre cristiano. Intorno a lei, un mondo che giudica, osserva, si difende dal cambiamento.

“Ti avviso, chiamerò il sheikh per tirar fuori il diavolo che si trova dentro di te.”

Le dice la madre, in una delle scene più dure e verosimili del corto. Ma quel “diavolo” non è altro che la scoperta di sé: la scintilla di un desiderio che non sa ancora come chiamarsi.

Dopo il successo a Clermont-Ferrand, dove ha vinto il Premio degli Studenti, l’opera cinematografica di Sharon Hakim arriva al MedFilm Festival di Roma. Hakim, regista franco-egiziana, già nota per La grande nuit (2020) e Nostalgia for the Dodos (2024), sta inoltre lavorando al suo primo lungometraggio.

Il corpo come prima comunione

La comunione, in The Devil and the Bicycle, non è un sacramento bensì un risveglio. È il momento in cui Yasma (Mélissa Succar) inizia a sentire il proprio corpo come qualcosa che esiste, che desidera, che vibra. Hakim ci porta lì, in chiesa, con inquadrature strettissime: l’ostia che si posa sulle mani, i corpi che si muovono in silenzio. Non vediamo molti volti, soprattutto gesti. La fede diventa dunque un gesto meccanico, ripetuto, fino a svuotarsi del suo senso. Ed è proprio in quella ripetizione che ci domandiamo cosa significhi davvero “puro”.

Incontra un ragazzo che aggiusta biciclette, dopodiché farà sì che si rompa ogni volta e poi ancora, e ancora. Ogni guasto è un pretesto per tornare da lui, per restare un po’ più a lungo. È qui che Hakim costruisce la sua favola: un’educazione sentimentale che non passa attraverso il peccato, ma attraverso il gioco.

La bicicletta come peccato originale

Yasma impara a pedalare, ma anche a cadere. La bicicletta diventa quindi il suo modo di attraversare il desiderio, un oggetto quotidiano in grado di trasformarsi in simbolo di scoperta e di colpa. È un’estensione del corpo. La protagonista continua a portare le sue amiche a provare l’esperienza sulla bici. A scoprire la loro sessualità.

La madre, invece, vede solo la vergogna: la paura di ciò che gli altri dicono. In questo senso, Hakim costruisce una tensione quasi biblica: una madre che vuole proteggere, una figlia che vuole semplicemente vivere. Una contraddizione similare a Povere creature! di Lanthimos, ma ribaltata: se Bella Baxter nasce già “fuori” dalla morale, Yasma cerca di emanciparsi dentro la morale, in un mondo dove la religione è ancora il linguaggio della paura.

The Devil and the Bicycle: una favola blasfema, tenera e necessaria

La regia di Hakim è precisa, sensoriale, quasi corporea. Le sue inquadrature sono strette, volutamente imperfette. L’arco visivo non corrisponde mai a ciò che vedrebbe l’occhio umano: ci spinge più vicino del dovuto, come se volesse isolarci dal rumore del mondo.
Ci fa guardare le piccole cose, come la ventola che gira per segnare il tempo, al posto della scritta “due giorni dopo”.

Nel montaggio, Hakim alterna ritmo e sospensione, facendoci oscillare tra il desiderio e la colpa, tra la curiosità e la punizione. Non c’è mai una scena “di troppo”: ogni taglio è una pausa, un respiro, una presa di coscienza.

Il mondo intorno le giudica, le accusa, le punisce. Ma Hakim filma la scoperta senza mai trasformarla in scandalo. È cinema che accarezza e che libera.

“Il mio scopo era mettere il dito su quel momento in cui la vergogna cambia forma.”

ha raccontato la co-sceneggiatrice Tamara Saadé, che condivide con Hakim una visione limpida, quasi sorella.

“Ho voluto riscrivere un piccolo mito: la ragazza che inizia le altre al piacere e viene poi esclusa.”

Tra femminismo e ironia

Hakim non approccia al racconto del film manifestando, ma utilizza un’esperienza intima. Il film non denuncia: gioca, scivola, sussurra. E in quella leggerezza costruisce la sua forza politica.

La regista non cerca l’iconografia della ribellione, ma la verità dei gesti. Le sue donne non distruggono il sistema: lo attraversano, lo smontano dall’interno. In The Devil and the Bicycle il diavolo non è un nemico ma l’ alter ego. Si tratta della libertà che cresce in silenzio, e che prima o poi riuscirà a trovare la sua voce.

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