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‘I fantasmi dietro lo schermo’: tre J-Horror nipponici per un Halloween alternativo

MUBI propone The Ring, Pulse e Audition nella rassegna “I fantasmi dietro lo schermo”: un viaggio nell’horror giapponese che ha fatto scuola

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C’è qualcosa di antico e allo stesso tempo modernissimo nel terrore giapponese. Con la rassegna I fantasmi dietro lo schermo: un trittico J-Horror, disponibile su MUBI, la piattaforma ci invita a rivivere la stagione più affascinante e disturbante del cinema horror nipponico.
Tre film iconici: The Ring (Hideo Nakata, 1998), Pulse (Kiyoshi Kurosawa, 2001) e Audition (Takashi Miike, 1999) tornano a farci tremare, ricordandoci che la paura non è fatta solo di mostri, ma anche solo di una buona “connessione” o di una videocassetta maledetta.

The Ring (Hideo Nakata, 1998)

Il film che ha ridefinito l’horror contemporaneo. Con The Ring, Hideo Nakata porta il folklore giapponese nell’era digitale: una videocassetta misteriosa, un telefono che squilla, e sette giorni per vivere.

Il genio di Nakata fu trasformare la tecnologia quotidiana, la novità del millennio, in strumento del terrore. Lo schermo che sia televisione, monitor o telecamera, diventa portale, medium di una maledizione che si propaga come un virus, anticipando le paure della società iperconnessa.

Sadako, la ragazza dai capelli neri che emerge dal televisore, è ormai un’icona pop, ma resta soprattutto la metafora di un trauma collettivo: la vendetta di ciò che il mondo moderno ha cercato di rimuovere. Minimalista e disturbante, The Ring è ancora oggi una lezione di regia dell’invisibile, dove il vero orrore abita nei silenzi e nei dettagli, nulla a che vedere con il suo, seppur ottimo, remake statunitense.

Pulse (Kiyoshi Kurosawa, 2001) @MUBI

Pulse (Kiyoshi Kurosawa, 2001)

Con Pulse (Kairo), Kiyoshi Kurosawa porta l’angoscia a un livello metafisico. Non più solo una maledizione che uccide, ma una presenza che svuota. Internet diventa il nuovo aldilà: un luogo in cui i morti invadono il mondo dei vivi, o forse viceversa.

L’atmosfera è rarefatta, sospesa, dominata da un senso di isolamento che prefigura la depressione digitale dei nostri anni. I fantasmi non spaventano con urla, ma con assenze: corpi che scompaiono, stanze che si spengono, città deserte.

Kurosawa filma la connessione come condanna: ogni clic è un contatto con l’ignoto, ogni immagine online è un avvertimento. In Pulse, la paura è esistenziale. Non si tratta di sopravvivere, ma di non sparire.

Audition (Takashi Miike, 1999)

Takashi Miike firma con Audition uno dei film più controversi e disturbanti del cinema giapponese. Un vedovo organizza un finto provino per trovare una nuova compagna, ma la donna che sceglierà, Asami, nasconde ferite profonde e una violenza che ribalta ogni schema di genere.

Il film parte come melodramma e lentamente muta in incubo, con un crescendo di tensione che culmina in una delle sequenze più sconvolgenti della storia del cinema horror.

Miike non cerca lo shock gratuito: il suo è un orrore intimo, psicologico, che nasce dal dolore represso e dalla misoginia nascosta nella società patriarcale, costruendosi e insinuandosi piano piano nelle pieghe del suo cinema. Audition è un film sulla vulnerabilità maschile e sulla potenza del trauma, un’esperienza che resta impressa sotto la pelle.

Audition (Takashi Miike, 1999) @MUBI

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Questi tre film, diversi per tono ma uniti dallo stesso spirito perturbante, hanno ridefinito l’idea di paura tra gli anni ’90 e 2000, contaminando l’immaginario globale e influenzando Hollywood (dal remake di The Ring a The Grudge).
La rassegna di MUBI permette di rileggerli come un trittico coerente: The Ring racconta l’inizio della maledizione, l’ingresso del male nel quotidiano, Pulse ne mostra la diffusione, la dissoluzione dell’umano nel digitale, mentre Audition chiude il cerchio, riportando la paura nel corpo e nelle relazioni.

Con I fantasmi dietro lo schermo, MUBI celebra il potere più affascinante del J-Horror: trasformare l’orrore in riflessione, la paura in poesia. Tre film che non solo spaventano, ma rivelano, sotto la superficie dell’immagine, l’anima inquieta di un intero Paese, con l’eleganza propria del cinema giapponese.

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