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‘Hedda’, I’iperfemminilità borghese incontra il suo lato artefatto

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La potenza del mezzo cinematografico ha, tra i suoi innumerevoli pregi, quello di saper abbattere gli stereotipi legati al genere, alla razza, ai mondi e alle società. In Hedda, Nia DaCosta sembra particolarmente interessata a smascherare – e, in parte, a deridere – la borghesia di facciata.
Fin dai primi istanti, lo spettatore viene immerso nei meandri più oscuri, e al tempo stesso affascinanti, di una classe sociale che gli appare lontana e misteriosa, spinto dal desiderio di comprendere e far propria una lezione fondamentale: non è tutto oro ciò che luccica.

Hedda, appena sposata con George, torna da un lungo viaggio di nozze. Durante una festa organizzata per il marito, la giovane si ritrova costretta a far riaffiorare il passato a causa dell’inaspettato arrivo dell’amante Eileen, la quale porta con sé desideri, manipolazioni e gelosie.

Prime Video: Hedda

Hedda: tra sfarzo e vuoto

La pièce teatrale di Ibsen si fonda interamente sulla magnificenza e sulla luminosità della protagonista. I primi piani, i costumi, le espressioni e la luce stessa sembrano congiurare per mettere al centro la sua brillante ed enigmatica figura femminile.
Nia DaCosta crea un’opera che punta tutto su sfarzo, eleganza, classe e superiorità, ma questi elementi emergono solo in parte. Dietro l’estetica patinata, raffinata e a tratti geometrica, si cela infatti una certa ripetitività.
L’opera, quasi interamente condensata nell’arco di una sola serata e di una notte, finisce più volte per girare su se stessa, senza riuscire davvero a spiccare il volo. La decisione della regista di suddividere la storia in capitoli sembra priva di una motivazione profonda e, in definitiva, superflua: i vari segmenti non segnano un autentico sviluppo narrativo né un’evoluzione interiore dei personaggi. 

Hedda Gabler è una donna affermata, indistruttibile, emancipata e, per certi versi, apatica, pienamente consapevole dei propri pregi e difetti. Un personaggio affascinante in superficie, ma che in profondità rivela una triste monotonia e un vuoto interiore.
L’impostazione teatrale è evidente in più momenti, ma stabilire se ciò rappresenti un pregio o un limite resta difficile anche al termine dell’opera. Hedda si presenta come una pellicola che vuole sedurre lo spettatore con la propria eleganza formale: la musica non accompagna soltanto le azioni dei personaggi, ma riflette la loro condizione esistenziale, segnata da un’eleganza sterile, priva di veri significati o spiegazioni profonde.

L’ultimo canto del cigno

La festa in Hedda diventa il luogo delle questioni irrisolte e della scoperta di sé e degli altri, una sorta di resa dei conti interiore che conduce alla consapevolezza della vita che si vive e di quella che si è scelto di vivere.
La protagonista appare come una donna innamorata solo di se stessa: ogni gesto, parola o decisione sembra orientato unicamente al proprio tornaconto, un tratto che accompagna l’intera visione del film, salvo nell’ultima parte, dove la storia compie una svolta inattesa. Tuttavia, questo finale, denso di eventi e di tensione, finisce per disorientare lo spettatore, in pieno contrasto con la quasi staticità della lunga sezione centrale. 

Colorato, composto, cantato e danzato, sotto questa prospettiva l’ultima fatica della regista statunitense sembra vincente da ogni punto di vista, promettendo un’esperienza vivace e profondamente cinematografica. Eppure, la sensazione di aver assistito a qualcosa di piatto e facilmente dimenticabile è forte: ciò che davvero funziona sono solo gli elementi che la regista ha scelto di non toccare, lasciandoli intatti dall’opera di Ibsen. 

Nia DaCosta: il futuro del cinema è salvo, o quasi 

Il nuovo lavoro di Nia DaCosta è sulla bocca di tutti da mesi: un’opera firmata da una regista che ha sempre dimostrato grande abilità nel muoversi tra i generi, lasciando ogni volta un’impronta personale – riuscita o discutibile che sia – ma sempre motivata da una forte consapevolezza autoriale.
La sua prossima uscita, già annunciata da tempo, sarà 28 Years Later: The bone temple, secondo capitolo della nuova trilogia tratta dalla celebre saga inaugurata nel 2002 da Danny Boyle, che per questa nuova trilogia ha scelto proprio DaCosta alla regia. 

Una decisione che conferma come, dietro il volto giovane di una regista statunitense di appena trentacinque anni, si nasconda una donna coraggiosa, capace di assumersi grandi responsabilità: dirigere un film del MCU, riscrivere un horror cult degli anni Ottanta e reinterpretare Ibsen in chiave personale.
Il dubbio, tuttavia, riguarda la capacità di unire estetica e narrazione, di fondere forma e sostanza senza ridurre tutto a un raffinato esercizio di stile che, pur elegante e ricercato, rischia di lasciare poco dietro di sé.

Nia DaCosta riceverà il Premio Progressive alla Carriera

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