Festival di Roma

‘Il figlio più bello’: Un documentario che guarda negli occhi la fragilità

Il mondo di Matteo

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Il figlio più bello racconta la storia personale di Stefano Rulli, sceneggiatore noto del cinema italiano, nel suo ruolo più delicato e in parte pubblico: quello di padre di Matteo, suo figlio adulto affetto da un disturbo dello spettro autistico.

Il documentario sarà proiettato il 23 Ottobre alle 17 alla Festa del cinema di Roma.

Tra speranza, autonomia e dignità

La narrazione intreccia passato e presente: da un lato c’è la quotidianità di Matteo, le sue sfide, la ricerca di un’autonomia (tra Perugia, la città in cui vive), i rapporti, la vita condivisa con altri, il desiderio di costruire una sua indipendenza anche abitativa.

Dall’altro lato emergono il ricordo e il peso del passato: Clara Sereni, madre di Matteo e partner di Stefano nel progetto della Fondazione La Città del Sole, è scomparsa nel 2018. Quel passato doloroso, quelle speranze, quelle utopie, sono presenti come sfondo a cui il presente non può sottrarsi.

Un elemento significativo è poi il progetto, l’idea della fondazione: dare non soltanto cura, ma dignità, autonomia, relazioni a persone con disagio psichico — fare in modo che non siano isolate ma protagoniste di una vita che abbia senso.

Stefano Rulli

Giovanni Piperno e Stefano Rulli

Giovanni Piperno è un rinomato documentarista italiano (noto per opere come Le cose belle del 2014, un docu-film toccante sulle speranze e disillusioni della Napoli proletaria), mentre Stefano Rulli è uno sceneggiatore di peso (ha collaborato a capolavori come La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana). È possibile che si tratti di un titolo inedito, in fase di produzione o di un errore di trascrizione.

Piperno eccelle nei ritratti intimi e reali di vite ordinarie, spesso con un approccio documentaristico crudo ed empatico, mentre Rulli porta una sceneggiatura profonda, psicologica, con echi di dramma familiare e sociale (pensate ai temi di redenzione e crisi in La meglio gioventù).

Giovanni Piperno

Onestà emotiva come ingrediente principale

Il documentario non cerca soluzioni facili o retoriche. C’è una vulnerabilità reale, un mostrarsi senza filtri che lo rende molto toccante. L’equilibrio tra dolore, speranza, quotidianità è ben gestito. Non è solo la vicenda di una famiglia, ma di come questa famiglia si fa comunità e impegno sociale con la Fondazione. Questo allarga il respiro, dà al documentario una dimensione più universale. L’esperienza di accompagnare Matteo verso l’autonomia diventa metafora di un’impresa più grande: quella del prendersi cura delle differenze, della salute mentale, del superamento delle barriere sociali.

Il film muove tra passato e presente in modo fluido, alternando memorie, riflessioni, momenti di vita quotidiana. Il montaggio non pesa, non appesantisce.

Un rapporto autentico ed un significato forte

Matteo non è rappresentato come “il malato” ma come persona con tempi, desideri, limiti, slanci. Stefano, Clara (nei ricordi), gli altri coinquilini, sono figure che emergono con spigoli, con limiti, ma anche con amore, fatica, dignità. Questo aiuta lo spettatore a entrare nella storia, non solo ad assistere.

Il figlio più bello è un documentario che funziona come testimonianza: invita a pensare che le persone con disturbi psichici non siano “problemi da nascondere”, ma soggetti con una vita che può essere ricca, se supportata con amore, rispetto, strutture adeguate.

È anche un’occasione per riflettere su genitorialità, perdita, memoria, resilienza — su come la vita con una persona “diversa” (secondo gli standard comuni) costringa a ripensare nozioni come normalità, autonomia, dipendenza.

Dal punto di vista culturale, può contribuire a sensibilizzare sul tema della salute mentale, specialmente in Italia, dove spesso c’è ancora molta disinformazione, stigma, ma anche carenza di risorse.

Un documentario che lascia spazio alla riflessione

Il figlio più bello è un documentario toccante, sincero, ben costruito, che sa alternare il racconto privato con riflessioni più ampie, senza diventare un pamphlet o melodramma. Forse non risponde a ogni domanda — e probabilmente non è sua intenzione farlo — ma pone questioni importanti, lascia spazio alla riflessione, e lo fa attraverso immagini e voci vere, non costruite.

Un film che non ha paura del dolore, che mette in gioco i sentimenti, e cerca bellezza nel quotidiano.

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