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‘Kabul Between Prayers’, uno spaccato di violenta lotta spirituale
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2 mesi agoon
Presentato fuori concorso durante l’ultima edizione della Mostra Internazionale del Festival del Cinema di Venezia, Kabul Between Prayers torna sugli schermi nella sua prepotente contemporaneità nella programmazione del festival Middle East Now. Arrivato alla sua 16ª edizione, il Festival si svolge dal dal 7 al 12 ottobre 2025 in vari luoghi di Firenze. Il filo conduttore in questa edizione è Radical Imagination: la chiara ed evidente intenzione di smantellare distorte e rischiose rappresentazioni delle realtà mediorientali.
Aboozar Amini, regista del film, documenta con fascino una generazione perduta di uomini talebani: attraverso la vita quotidiana di due fratelli. Samim di 23 anni e Rafi, il fratello minore appena 14enne. Fin dal primo fotogramma è evidente l’intenzione – quasi estrema – di voler evitare qualsiasi paternalistico scontro con la cultura occidentale.
Il film e i suoi protagonisti si lasciano guardare solo nel patto, stretto con lo spettatore, di sospendere il proprio contaminato giudizio occidentale. Quindi guardare a ciò che avviene, con occhi curiosi, ricercando l’umanità, la sensibilità e la banalità oltre l’indottrinamento religioso e il buffo collegamento con l’utilizzo della violenza.
Kabul Between Prayers, la sospensione del giudizio
Il regista affida al pubblico una missione difficilissima: evitare il proprio giudizio etico e morale; resistere alla morsa delle nostre credenze; rivalutare la sottile linea di demarcazione tra bene e male. In particolare, rispetto al profondo senso di appartenenza e bene comunitario che si mescola in maniera confusa con l’utilizzo di strategie violente e sopraffazioni.
Si arranca nel riuscire a compiere questa missione senza senza sentirsi sopraffatti. Nello spettatore si innesca – inevitabilmente – un circolo di senso di colpa per la volontà di restituire ad Amini questo sguardo dolce nel contesto di una realtà estremamente violenta. Gli occhi di Samim comunicano sprazzi di lucida e vivace intelligenza mentre quelli di Rafi urlano paura e anche il sinistro intento di liberarsene in ogni modo possibile.
Eppure l’intenzione di Amini è chiara e disarmante: guardare con umanità. Quindi la vita a Kabul si srotola nel corso dei minuti del film come fosse una tra le tante in cui le divise militari hanno i colori della kefiah e i posti di blocco sono svolti da uomini con i kalashnikov spianati.
Siamo lontani dalle città che conosciamo e la loro rappresentazione denaturata. Siamo noi a vedere le città occidentali con colori vivi e quelle mediorientali in maniera desaturata? Cosa ci racconta la scelta fotografica del regista? Un luogo in cui le folate di sabbia interrompono racconti crudi e occhi lucidi, in cui la vestizione del turbante è un modo di rappresentarsi ed essere riconosciuto con orgoglio.
La preghiera e la violenza
Kabul Between Prayers mette ripetutamente in discussione le nostre convinzioni occidentali: esiste davvero un significato universale di violenza e cura? Questi concetti sono profondamente radicati in contesti culturali specifici. Possiamo allora fidarci del nostro giudizio, inevitabilmente privilegiato e occidentale, per valutare la legittimità di idee che nascono in contesti così diversi dal nostro?
Samim a 23 anni dispensa la saggezza di un uomo anziano, ricadendo solo in piccolissimi frangenti in vizi di forma tipici della sua età. Samim porta il peso del massacrante lavoro nella fattoria di famiglia, ma è anche un soldato talebano che crede con fede profonda nel suo compito. A Kabul la fede è al centro della vita, la quotidianità è scandita dalle proprie ferventi convinzioni spirituali, ideologiche e dogmatiche. Samim prega con devozione i martiri del suo popolo, sogna di diventare un suicide bomber e parla alla sua famiglia dispensando consigli su un futuro in cui lui non sarà più presente.
Rafi, nei suoi 14 anni, è un ragazzino che si sta appena affacciando al mondo degli adulti; e se da una parte nei suoi occhi è evidente l’universale scintilla infantile, dall’altra la sua profondità spirituale destabilizza lo spettatore. I suoi anni non sono gli anni di un coetaneo occidentale: questa non è un’affermazione di sopraffazione ma di contestualizzazione rispetto a un sistema educativo che privilegia l’essere e lo spirito integro rispetto alla voracità dei contenuti.
L’occhio del documentario
Un fotogramma, in particolare, colpisce violentemente. Seppur per pochi istanti, vale per il film intero. Elyas è il terzo fratello, il piccolo della famiglia che intravediamo nell’interazione con i più grandi. Nella scena i fratelli giocano con il fucile del maggiore che incita Elyas a provarlo. Il giovane è carico di eccitazione nell’imitare gli adulti: il contrappasso necessario per essere parte di qualcosa di più grande.
Elyas spara. Il regista si concentra su un primo piano del bambino nell’atto di compiere l’azione: il viso nell’immediato momento successivo al colpo di fucile ci racconterà una storia tutta diversa, una storia sotterranea, una storia che trascende la storia stessa. La smorfia di Elyas è il riconoscimento ancestrale di aver compiuto un atto innaturale. La risposta entusiasta dei suoi fratelli fa scomparire l’espressione iniziale: “ho fatto bene, loro sono fieri di me”. La camera di Amini, tuttavia, ci racconta un’altra istanza sacra e ignobile allo stesso tempo. Ed è in fotogrammi come questi che si evince tutta la potenza del mezzo documentaristico a cui nessuno riesce mai a mentire.
Le figure femminili sono totalmente assenti e in questa devastante umanità fatta di fede, preghiere e violenza, si dispiega la storia futura di una generazione di giovani uomini destinati alla morte: una generazione spezzata dal fanatismo religioso.