Sedicicorto

‘Mort d’un acteur’ di Ambroise Rateau: una satira assurda della celebrità contemporanea

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Morire in scena è senza dubbio una delle prove più complesse per un attore, ma nulla in confronto alla morte reale — o presunta — di una celebrità. È proprio da questo paradosso che prende le mosse Mort d’un acteur (2024), cortometraggio di Ambroise Rateau in concorso al Sedicicorto International Film Festival.

Brillante e surreale commedia nera che colpisce dritto al cuore dell’universo dello spettacolo e della sua immagine deformata. In poco più di 20 minuti, il film affronta con ironia tagliente e intelligenza visiva alcune delle problematiche più urgenti del mondo contemporaneo: la cultura della celebrità, l’invadenza dei media, e l’appropriazione dell’identità attraverso le tecnologie digitali.

Una trama semplice quanto dirompente

Il protagonista è Philippe Rebbot, attore comico francese, che una mattina scopre con stupore di essere stato dichiarato morto da media e social network. La reazione iniziale, un misto di stupore e incredulità, si trasforma rapidamente in angoscia quando ogni suo tentativo di smentire la notizia non fa che peggiorare la situazione. Più tenta di dimostrare di essere vivo, più il mondo sembra volerlo relegare al cimitero della memoria collettiva.

La trama, apparentemente assurda, si trasforma così in una riflessione potentissima sulla fragilità della fama e sull’inquietante velocità con cui la società contemporanea “consuma” le figure pubbliche. L’attore vivo che assiste alla propria morte simbolica diventa emblema di una cultura che sostituisce l’empatia con il clic, e l’umanità con l’algoritmo.

Satira, tecnologia e spettacolo

Mort d’un acteur è una satira sociale che mette a fuoco il mondo dello spettacolo come luogo in cui l’apparenza e l’immagine contano più della realtà. Il film denuncia come il corpo e il volto degli attori possano oggi essere riprodotti, manipolati, replicati digitalmente senza più alcun controllo da parte dei diretti interessati. Una tematica resa ancora più attuale dallo sciopero SAG-AFTRA del 2024 negli Stati Uniti, che ha messo al centro la questione della protezione dell’identità digitale degli artisti.

Il film porta quindi in scena — con ironia e inquietudine — una domanda fondamentale: cosa resta di un attore quando la sua immagine viene divorata e riprodotta da un sistema che funziona anche senza di lui?

L’arte dell’assurdo tra Spike Jonze, Kaufman e Parasite

Il cortometraggio si distingue per un equilibrio perfetto tra commedia, thriller e satira sociale. Il tono è grottesco e surreale, sorretto da una solida struttura narrativa. La regia di Rateau evita virtuosismi superflui e si affida a una messa in scena in grado di suggerire visivamente molto più di quanto non racconti esplicitamente.

La fotografia, calda e austera al tempo stesso, contribuisce a creare un’atmosfera inquietante, in linea con il tono del racconto. In alcuni momenti, l’immaginario visivo del film richiama apertamente il cinema di Spike Jonze, Charlie Kaufman, e l’umorismo pungente di Benoît Delépine e Gustave Kervern. Una scena nella casa di Finnegan, l’attore che sostituirà Rebbot, sembra citare persino le dinamiche e l’estetica di Parasite (2019) di Bong Joon-ho.

Una riflessione sul rapporto tra morte e immagine

Il film porta lo spettatore a riflettere sul modo di rapportarsi alla morte degli attori e delle celebrità: si esalta con fervore la notizia di una scomparsa, si condividono post commemorativi, eppure si dimentica tutto con la stessa rapidità con cui si clicca il tasto “condividi”.

In questo senso, Mort d’un acteur è anche un’opera politica: nella sua capacità di interrogare lo spettatore su quale tipo di società dello spettacolo si vuole costruire.

Una commedia brillante 

Mort d’un acteur è un cortometraggio che riesce a divertire e inquietare allo stesso tempo. È brillante, originale, e profondamente contemporaneo. Un buon esempio delle grandi capacità del cinema francese, che affonda le proprie radici nelle origini della settima arte. Una commedia nera che, sotto la maschera del grottesco, mette in scena tutta la tragicità dell’essere parte della società dell’immagine.

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