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Storie dell’altro cinema della natura

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Come si legge in Walden ovvero Vita nei boschi di Henry David Thoreau: “La Natura non rivolge domande né risposte a quelle che noi mortali le rivolgiamo”. Eppure, non per questo dovremmo smettere di interrogarci.

Nel suo saggio del 2004 Toward an Eco-Cinema, il critico Scott MacDonald afferma che “la ‘vita’ che vediamo muoversi sullo schermo è una sorta di ri-animazione della vita vegetale e animale all’interno dell’apparato meccanico e chimico del cinema tradizionale”. MacDonald si riferiva alla composizione della pellicola, costituita da uno strato di celluloide – derivata dalla cellulosa – e da uno strato di emulsione: gelatina fotografica derivata dal collagene in cui sono dispersi sali d’argento fotosensibili che, all’esposizione alla luce, reagiscono registrando l’immagine. Cellulosa e collagene, tracce di vita vegetale e animale, hanno costituito il principale supporto filmico prima dell’arrivo del digitale.

È il 1896 quando Kamill Serf realizza una “veduta” a camera fissa dei pozzi petroliferi in fiamme a Baku, in Azerbaigian. Il film, una produzione dei fratelli Lumière, secondo il regista francese Bertrand Tavernierpotrebbe essere il primo film ecologico mai realizzato”. Probabilmente, gli spettatori furono più colpiti dall’effetto scenografico delle fiamme e del fumo nero che dalle implicazioni ambientali. Oggi, tuttavia, è difficile ignorare il significato ecologico di certi fenomeni, che siano incendi boschivi, alluvioni o uragani, oppure fenomeni di origine strettamente antropica come gli incidenti petroliferi. La storia del cinema mostra come il modo di rappresentare gli ambienti naturali e gli organismi viventi sia cambiato, riflettendo di volta in volta le preoccupazioni e gli interessi delle diverse generazioni.

Uno sguardo al rapporto tra l’essere umano e gli altri animali

Il primo film a colori della cinematografia subacquea è italiano: Sesto continente (1954), documentario di Folco Quilici. Due anni dopo, Jacques-Yves Cousteau, con un ventenne Louis Malle come aiuto regista, realizzerà Il mondo del silenzio (Le Monde du silence), destinato a ricevere la Palma d’oro al nono Festival di Cannes e l’Oscar al miglior documentario nel 1957.

Pur rappresentando un documento storico prezioso e tecnicamente innovativo, molte sequenze de Il mondo del silenzio mostrano un contatto con la fauna oggi considerato inaccettabile. Il film documenta le esplorazioni subacquee dei sommozzatori, durante una spedizione a bordo della nave Calypso tra il 1954 e il 1955, nel Mar Mediterraneo, nel Golfo Persico, nel Mar Rosso e nell’Oceano Indiano. Nello stesso periodo Cousteau, con l’aiuto dei pescatori locali, scoprì il relitto della nave mercantile Thistlegorm, di cui nel film è documentata l’esplorazione, senza mai rivelarne le coordinate.

Quasi trent’anni dopo, quando emerse che in Cannibal Holocaust (1980), il controverso film di Ruggero Deodato, gli animali venivano realmente uccisi sul set, il regista e la troupe rischiarono il carcere. Se uno degli attori, Perry Pirkanen, pianse durante l’uccisione di una tartaruga, lo stesso non si può dire dei sommozzatori de Il mondo del silenzio, quando si aggrappano senza scrupoli a una tartaruga di mare che si trascina con fatica sotto il loro peso; oppure li si vede seduti sul carapace di alcune tartarughe giganti, usate come tavoli da picnic. O ancora, nella sequenza in cui, dopo aver dato da mangiare a una grossa cernia – il foraggiamento di alcuni animali selvatici rappresenta, oltre che una pratica dannosa per la fauna, anche un reato – i sommozzatori la ingabbiano per evitare che li segua in cerca di altro cibo.

La tendenza all’antropomorfismo

Fu negli anni ‘90 che Il mondo del silenzio cominciò a ricevere pesanti critiche. Tuttavia, come sostenne l’oceanografo François Sarano: “Bisogna capire che il sistema di valori non era lo stesso. Queste immagini sono state girate in un’epoca in cui non si sapeva nulla dell’oceano, ancora popolato di mostri marini. Cacciare le foche e le balene era la norma. Si consideravano il mare e le sue risorse inesauribili. Non esisteva ancora una coscienza ecologica”.

Oggi, questa coscienza ecologica si è sviluppata al punto da produrre, talvolta, una sorta di variante ambientalista della cancel culture, animata da un’indignazione ipertrofica. In passato, molte pratiche oggi considerate dannose per la fauna erano socialmente accettate o tollerate; nel tempo, un attivismo acritico ha portato all’eccesso opposto, rafforzando una tendenza già diffusa all’antropomorfizzazione. Nei documentari naturalistici contemporanei, infatti, non è raro osservare fauna e flora senza che siano loro attribuiti tratti e caratteristiche tipici dell’essere umano. Si può allora sviluppare una vera sensibilità ecologica senza incorrere in proiezioni e antropomorfizzazioni?

L’antropomorfizzazione della flora

Un’antropomorfizzazione della flora è presente nel documentario La vita segreta delle piante (1979), diretto da Walon Green e basato sull’omonimo libro di Peter Tompkins e Christopher Bird. In questa bizzarra opera pseudoscientifica sono riportati esperimenti condotti in diversi paesi che, tramite l’uso di un poligrafo – apparecchio che registra parametri fisiologici tramite elettrodi – intendono dimostrare che anche le piante sono dotate di coscienza. Non solo coscienza, ma persino empatia. Uno degli esperimenti, condotto da un team sovietico, prevede di inserire elettrodi in un cavolo, registrandone le reazioni alla “vista” di un suo simile che viene tagliato con un coltello da cucina. In una sequenza girata in Giappone, i coniugi Hashimoto tentano addirittura di insegnare la lingua giapponese ai cactus, usando una macchina della verità per trasformare le reazioni della pianta in suono.

Questo documentario, tuttavia, non può essere giustificato alla luce dei valori di un’altra epoca, come per Il mondo del silenzio. Già allora, i dati sperimentali disponibili smentivano chiaramente la validità scientifica di certi esperimenti. Nondimeno, la colonna sonora realizzata appositamente da Stevie Wonder è memorabile: il musicista accompagna infatti ogni sequenza, con l’aiuto dell’ingegnere del suono Gary Olazabal, che cronometrava ogni passaggio del film affinché le parole delle canzoni corrispondessero alle immagini rappresentate.

La vita segreta delle piante (1979)

Il pianeta azzurro

Tre anni dopo, in concorso alla trentanovesima edizione del Festival di Venezia, fu presentato Il pianeta azzurro (1982) di Franco Piavoli, notevole per la forza visiva delle immagini e un innovativo montaggio visivo-sonoro. Alla base del film vi è l’ontologia materialista di Lucrezio, evocata fin dall’apertura con una citazione dal De rerum natura: “Il nascere si ripete di cosa in cosa e la vita a nessuno è data in proprietà ma a tutti in uso”. Ma il film compie qualcosa di più: reinserisce l’essere umano all’interno del macrocosmo naturale, in una dialettica osservatore-partecipe in cui l’unica “gerarchia dei viventi” concessa è quella che emerge dall’albero filogenetico.

Come osserva il critico Calvin Ahlgren nella sua recensione per il San Francisco Chronicle: “questo film non è creato a scopi ecologici: i suoi toni emotivi sono di gran lunga più forti e sottili di quelli dipinti dai pennelli polemici dei crociati della causa specifica”.

Talvolta, Il pianeta azzurro è stato interpretato erroneamente come un film che pone l’accento sulla natura distruttiva dell’essere umano a detrimento dell’equilibrio degli ambienti naturali. Una lettura simile a quella del critico Roger Ebert per Koyaanisqatsi (1982) di Godfrey Reggio: “Il messaggio [del film], credo, è che la natura è meravigliosa, ma che la civiltà americana è una despota corrotta che sta imponendo all’essere umano una vita folle”. In realtà, è più probabile che Reggio volesse, attraverso le associazioni visive tra ambienti naturali e antropici, evidenziare con un’estetizzazione riuscita la bellezza che l’essere umano è capace di creare, anche quando questa diventa espressione di sovrappopolazione, consumismo e delle tante contraddizioni della vita moderna. Nella lingua amerindia hopi, Koyaanisqatsi significa “vita in tumulto”.

Koyaanisqatsi (1982)

Microcosmi e macrocosmi

Il titolo del documentario Microcosmos – Il popolo dell’erba (1996), scritto e diretto dai biologi Claude Nuridsany e Marie Pérennou, può risultare fuorviante: il film non riguarda la microfauna, ossia gli organismi microscopici invisibili a occhio nudo, bensì alcuni momenti della vita della macrofauna, cioè insetti e invertebrati di dimensioni medie.

Microcosmos, per molti aspetti vicino a Il pianeta azzurro, ne condivide la sensibilità estetica, pur distinguendosi per l’ancor più eccezionale uso della macrofotografia. Entrambi i film nascono dall’osservazione ravvicinata di ambienti naturali prossimi alle abitazioni dei registi: Piavoli filma nella palude vicino a casa sua a Pozzolengo, mentre Nuridsany e Pérennou nella campagna dell’Aveyron. Molte sequenze, se si tralasciano le differenze climatiche tra le colline moreniche del Garda e i prati francesi, appaiono quasi speculari: l’accoppiamento delle chiocciole, il “tandem” delle libellule, le gocce di pioggia che crescono sul bordo di un ramo prima di cadere, i gerridi che pattinano sull’acqua, le “notonette”. Il fatto che le specie riprese siano piuttosto comuni potrebbe far pensare a una coincidenza; tuttavia, alcune inquadrature mostrano un’affinità visiva tale da suggerire l’influenza dell’opera di Piavoli.

Confronto tra Il pianeta azzurro (sopra) e Microcosmos – Il popolo dell’erba (sotto)

Il montaggio sonoro

Alcune affinità emergono anche dal montaggio sonoro. Bruno Coulais, compositore della colonna sonora di Microcosmos, e il montatore del suono hanno curato le registrazioni in modo da rendere difficile distinguere i suoni degli strumenti musicali da quelli degli insetti. In modo analogo, Piavoli gioca con alcune false piste sonore, rendendo ambigue e imprevedibili certe sequenze.

Le specie riprese in Microcosmos sono presentate come “attori in un film di finzione”. L’intento dei registi era infatti realizzare un film di finzione e non un documentario: “Partendo dalla conoscenza scientifica indispensabile e dai nostri numerosi quaderni di osservazione, ci siamo sentiti liberi di operare una traduzione artistica delle cose” spiega Nuridsany in un’intervista per Le Monde. Anche Il pianeta azzurro può essere considerato un film di finzione, poiché compie una sintesi tra più dimensioni temporali: il ciclo circadiano, quello delle stagioni e il momento dello scioglimento dei ghiacci al termine dell’ultima glaciazione.

Animali umani

Isabella Rossellini – che nel 2019 ha conseguito un master in Etologia e conservazione della fauna presso l’Hunter College – illustra la vita sessuale degli animali, i rituali di corteggiamento e le cure parentali nei cortometraggi naturalistici in stile cartoonesco raccolti in tre serie: Green Porno (2008), Seduce Me (2010) e Mammas (2013). In modo brillante e ironico, prende in prestito le stranezze della vita sessuale degli animali per metterle al servizio di una satira sugli esseri umani. Inoltre, non indulge nell’antropomorfizzazione, ma si cala lei stessa nei panni di ciascun animale, con un effetto grottesco e suggestivo.

Green Porno: L’ape (2008)

Come ha fatto Noè?

Nell’episodio 8 di Seduce Me, L’arca di Noè, Rossellini si interroga su come Noè avrebbe potuto organizzare tutti gli animali in coppie. Ad esempio, il lombrico è ermafrodita e possiede sia organi riproduttivi maschili che femminili. Cita poi la Crepidula fornicata, nota comunemente come patella, un ermafrodita sequenziale, cioè soggetto a “inversione sessuale” durante il ciclo vitale. Passa quindi agli afidi, una superfamiglia di insetti in grado di riprodursi anche per partenogenesi: le femmine, senza fecondazione, generano larve femmine. Infine, ricorda con ironia il caso delle lucertole dalla coda a frusta: “La nostra specie non ha più bisogno di maschi. Simuliamo il sesso tra noi femmine per stimolare i nostri ormoni. E poi abbiamo delle figlie. Niente maschi, solo femmine”.

Per l’ultimo episodio di Green Porno, L’elefante marino, Isabella Rossellini si reca nella Penisola di Valdés – nella Patagonia argentina – per incontrare il biologo Claudio Campagna, specializzato nello studio degli elefanti marini da trent’anni. Campagna compare anche in alcuni episodi di Seduce Me, in cui fornisce approfondimenti sulla tutela delle specie descritte.

Realizzati in un formato breve pensato per YouTube da Robert Redford, i cortometraggi sono girati su set pensati appositamente per la visione su schermi piccoli, come spiega Rossellini in un’intervista per Notebook di Mubi: “Quando abbiamo realizzato la prima serie di Green Porno, sullo sfondo c’erano generalmente tre o quattro colori al massimo. Pensavamo che, sullo schermo più piccolo, non si potesse percepire la profondità. Perciò, il set doveva sembrare un disegno”.

Seduce Me: L’arca di Noè (2010)

Funghi fantastici

I grandi dimenticati del documentario naturalistico, che hanno un ruolo ecologico altrettanto importante dei grandi mammiferi solitamente protagonisti – come elefanti, giraffe o tigri – sono i decompositori: lombrichi, batteri e funghi. I lombrichi, organismi detritivori, si nutrono di materia organica in decomposizione contribuendo al riciclo della sostanza organica e alla formazione del suolo; i batteri costituiscono invece la componente microbica indispensabile alla trasformazione chimica della materia.

Il regno dei funghi, in particolare, è vastissimo ma raramente rappresentato sul grande schermo. In Funghi fantastici (2019), diretto da Louie Schwartzberg, il micologo Paul Stamets descrive la complessità di questo mondo invisibile fondato sul micelio: la rete ipogea che consente ai funghi di nutrirsi. Il micelio agisce come apparato decompositore, capace di secernere enzimi che trasformano la materia organica e di costituire così le fondamenta di molti ecosistemi. Regolando i cicli biogeochimici, i funghi influenzano sia la disponibilità dei nutrienti che la composizione chimica delle componenti abiotiche – suoli, acque e atmosfera.

Suscitano particolare curiosità poiché, pur non essendo né animali né piante, condividono caratteristiche con entrambi i regni. Come scrive Merlin Sheldrake in L’ordine nascosto (2020), per sottolineare la differenza con gli animali: “Gli animali si nutrono introducendo il cibo nel loro corpo, i funghi introducendo il loro corpo nel cibo”. Alcuni funghi parassiti, come i cosiddetti “funghi zombie”, vivono all’interno del corpo di insetti ospiti, modificandone il comportamento per favorire la propria riproduzione attraverso la dispersione delle spore.

I funghi rivestono un ruolo importante anche dal punto di vista evolutivo, come testimoniano le associazioni mutualistiche tra funghi e alghe – i licheni: circa seicento milioni di anni fa essi permisero alle alghe verdi, antenate delle piante terrestri, di colonizzare un ambiente fino ad allora ostile come la terraferma.

Cow

Cow (2021), esordio documentaristico di Andrea Arnold, mostra con grande rigore la vita degli animali negli allevamenti. Il film non è girato in un allevamento intensivo in senso stretto, ma alla Park Farm nel Kent, in Inghilterra, una realtà a metà strada tra intensivo ed estensivo. La macchina da presa segue la vita di una mucca, documentandone le diverse fasi: dalla nascita all’accoppiamento, dall’alimentazione e mungitura, ai controlli veterinari, fino alla morte. Arnold non attenua la crudezza delle immagini, ma neppure indulge nell’antropomorfizzazione: restituisce la gravità dell’esistenza dell’animale senza ricorrere a facili artifici emotivi. Proprio perché non declama “violenza” in maniera sensazionalistica, il film non concede alibi a chi tende a liquidare simili opere come “ecoterrorismo” per poi voltarsi dall’altra parte. Per tutta la durata del film, il problema dell’allevamento intensivo e dello sfruttamento animale rimane costantemente sotto gli occhi dello spettatore, impossibile da ignorare.

Cow (2021)

Altri ambienti cinematografici

La rappresentazione cinematografica della vita, in tutte le sue accezioni, resta un capitolo aperto. Martina Parenti e Massimo D’Anolfi, con Bestiari, Erbari, Lapidari, adottano un approccio sperimentale in cui l’indagine della vita si sviluppa nei tre atti che compongono quest’opera. Bestiari esplora come il cinema ha rappresentato il mondo animale; Erbari, girato nell’Orto Botanico di Padova, è un documentario poetico d’osservazione del mondo vegetale; Lapidari, il capitolo conclusivo, si concentra sulla storia umana.

Già in lavori precedenti, come Spira mirabilis (2016), emerge chiaramente la predilezione dei due registi per una narrazione che si snoda attraverso associazioni visive rispetto all’uso della parola. Questa scelta “silenziosa” non è isolata: tra i film presi in considerazione, Il pianeta azzurro, Koyaanisqatsi, Microcosmos e Cow condividono un’impostazione simile, lasciando spazio alle immagini per rappresentare il mondo. Affidarsi alle immagini piuttosto che alla voce narrante o ai dialoghi può essere considerato, forse, il modo più fedele di comporre documentari capaci di mostrare la vita nella sua complessità o, meglio, di lasciare che essa si manifesti da sé.

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