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‘Tulsa King 3’: l’epica crepuscolare di un gangster fuori dal tempo

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Aarrivata su Paramount+ la terza stagione di Tulsa King, serie creata da Taylor Sheridan.

C’è qualcosa di malinconico e potentissimo, nel rivedere Sylvester Stallone nei panni di Dwight “Il Generale” Manfredi nella terza stagione di Tulsa King. Non è più soltanto la storia di un mafioso in esilio, ma il ritratto di un uomo che prova a reinventarsi in un’America che non gli appartiene, dove i neon delle strade e le leggi non scritte della provincia si intrecciano in un equilibrio instabile. Ccon i suoi completi gessati, che sembrano usciti da un vecchio catalogo Armani anni Ottanta e la postura da gladiatore stanco, domina lo schermo come una vera rockstar.

Dove eravamo rimasti

La seconda stagione di Tulsa King si chiude su un equilibrio traballante, con Dwight Manfredi che crede di aver consolidato il suo regno ma che, alla fine, si ritrova in una situazione non facile. Nel pieno della notte, degli uomini in tenuta operativa irrompono nella sua casa. Dwight viene rapito, con la testa coperta, e portato via in maniera clandestina. Una voce misteriosa gli dice “You work for us, now”. È un twist che trasforma l’idea di vittoria in quella di un nuovo vincolo oscuro, e che rimette in discussione tutto ciò che Dwight aveva costruito.

Ed è esattamente da qui che prende il via la terza stagione. Dwight non è più il generale che comanda Tulsa, ma un uomo ricattato, in balia di poteri governativi esterni che lo stanno costringendo a lavorare per loro. E si sviluppano così nuove relazioni, alleanze, conflitti. Ormai non è più solo una questione di territorio ma di sopravvivenza e di autonomia.

La recensione della seconda stagione di Tulsa King

Sylvester Stallone ancora re

Dwight Manfredi, il Generale, è ormai re di Tulsa. Stallone lo interpreta senza maquillage: il volto segnato, le rughe che diventano scrittura scenica. Il personaggio che porta in scena racconta la fatica, il rimpianto e la nostalgia. La sua corona brilla di polvere: più si espande il suo impero, più ne rivela la fragilità. Ogni espressione è memoria, ogni movimento è resistenza. E in questa nuova stagione, la provincia americana non è mai stata così glamour e spietata.

Sylvester Stallone, alla soglia degli ottant’anni, non recita più ma scolpisce i personaggi. Ogni suo gesto ha il peso della memoria, ogni silenzio racconta più di mille battute. Dwight non è Tony Soprano, non è Michael Corleone: è pieno di crepe, esitazioni, è la versione senile di un tipo che il cinema americano conosce benissimo e che qui si reinventa con una sfumatura di malinconia.

Il valore del tempo e della fedeltà

In questa terza stagione il potere e il declino diventano riflessione sul tempo e sulla fedeltà a se stessi. La violenza convive con la poesia. La sceneggiatura non è impeccabile e spesso rischia di strafare, accumulando trame e sottotrame. Ma è anche questo eccesso a renderla affascinante: Tulsa King non punta all’eleganza ma all’opulenza di un gangster che non ha paura di mescolare Shakespeare con Scorsese. E mentre i nemici si moltiplicano e gli amici diventano traditori potenziali, la vera partita resta intima: Dwight contro il tempo, contro l’erosione del mito, contro il terrore di diventare irrilevante. È qui che la serie decolla perché smette di essere solo crime e diventa tragedia.

La terza stagione di Tulsa King è imperfetta ma magnetica. È capace di passare dalla sparatoria al lirismo nel giro di pochi minuti. E Stallone, con il suo carisma da icona intramontabile, la trasforma in un’esperienza che va oltre la televisione.

Il trailer della terza stagione di Tulsa King

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