Lucca Film Festival
Il peso della cura in ‘In My Parents’ House’
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Presentato in anteprima italiana al Lucca Film Festival, già vincitore del Premio speciale della giuria al Rotterdam International Film Festival 2025, In My Parents’ House segna una nuova finestra nella filmografia di Tim Ellrich. Girato nella casa d’infanzia, il film prende forma grazie ad esperienze personali. Una ferita aperta davanti agli occhi del pubblico. Non è un semplice racconto, bensì di una seduta collettiva, un viaggio claustrofobico in cui il regista mette a nudo la propria memoria familiare, per poi trasformarla in materia cinematografica.
La protagonista Holle (Jenny Schily) è una terapeuta spirituale che dedica la sua vita a pazienti affetti da malattie croniche incurabili. Qui il paradosso: deve affrontare le stesse fragilità tra le mura domestiche, con genitori anziani e il fratello maggiore Sven, affetto da schizofrenia, che ha vissuto per anni segregato in casa. Un covo diventato il cuore doloroso della sua esistenza. Si tratta di un’opera che parla di obblighi, di legami e di amore, ma anche di impotenza. Una riflessione sulla linea sottile tra dovere e scelta, tra tradizione e libertà personale.
Il paradosso della cura: tra amore, dovere e tradizione
“Perché vai tutti i giorni dai tuoi genitori?”
domanda Dieter a Holle.
“Perché sono famiglia.”
Una semplicità che però porta con sé una contraddizione universale: aiutiamo i nostri cari per amore o perché la tradizione ci dice che è dovuto? Come ricordava Max Weber, le nostre azioni sono spesso il frutto di convinzioni e valori interiorizzati, non solo emozioni spontanee.
Il film mostra con chiarezza questo paradosso: i genitori, che hanno cresciuto i figli, diventano ora dipendenti da loro. Ma se è vero che i figli si sentono moralmente obbligati ad assisterli, è altrettanto vero che i genitori hanno scelto di metterli al mondo. Una questione che non trova risposte, ma che nel racconto prende corpo attraverso Holle, costretta a farsi carico di tutti. E qui emerge un’altra verità amara: troppo spesso è la figlia femmina a incarnare il ruolo della custode, della salvatrice, di colei che deve sacrificarsi per la famiglia.
La rappresentazione della schizofrenia in In My Parents’ House
La figura di Sven appare come un’ombra. In diversi momenti, anche se presente non lo vediamo, esiste solo come presenza evocata, come presenza lontana. È un procedimento che ricorda il personaggio invisibile di Bearcave, vincitore del premio Europa Cinemas Label a Venezia 2025, dove l’assenza stessa diventa elemento narrativo. In quest’ultima non vediamo invece mai il ragazzo di Anneta. In In My Parents’ House, Sven è simbolo di una realtà rimossa, impossibile da ignorare ma altrettanto difficile da affrontare.
Interpretato da Jens Brock, un non attore trovato per strada e coinvolto quasi per caso.
“L’abbiamo trovato seduto su una panchina a Berlino. Stava aspettando di andare ad un appuntamento dal medico.”
La sua presenza intimorisce, proprio come la schizofrenia che rappresenta: qualcosa che non si può controllare, ma solo subire. Holle, terapeuta di professione, si ritrova impotente dinanzi al fratello. Vent’anni prima era stato in cura, ma poi aveva abbandonato la terapia. Ora vive di inerzia, mangiando e tacendo, senza rispondere al mondo.
Il contrasto è devastante: una terapeuta che non riesce ad aiutare chi le è più vicino. È qui che l’opera tocca la sua ferita più profonda: l’impossibilità di salvare colui che non intende essere a sua volta salvato. Una tematica che dialoga con il cinema di Ingmar Bergman, all’interno della sua opera Come in uno specchio (1961). Anch’esso mostra una schizofrenia che diventa chiave di lettura per indagare la fragilità dei rapporti familiari. Un’opera che ottenne l’Oscar come Miglior Film Straniero.
Una regia claustrofobica e una fotografia senza tempo
Ellrich aveva inizialmente girato il film a colori, ma solo durante il montaggio, grazie al suggerimento del montatore Tobias Wilhelmer, ha scoperto che il bianco e nero era la chiave per dare al racconto una dimensione poetica e dolorosamente essenziale. Ora la fotografia di Konstantin Pape restituisce un senso di passato che si sgretola, come se tutto fosse già sul punto di sgretolarsi: i genitori in declino, la casa che mostra i segni del tempo, gli affetti consumati.
La scelta di inserire stacchi neri, brevi momenti di buio assoluto, amplifica il senso di sospensione e smarrimento. È come se la regia volesse farci provare la stessa mancanza d’aria che vivono i protagonisti. La macchina da presa diventa un bisturi che incide senza pietà, costringendoci a guardare la vita domestica non come rifugio, ma come trappola.
Holle, l’archetipo della salvatrice
Holle non è solo un personaggio: è un archetipo. È l’infermiera, la terapeuta, la figlia che si prende cura di tutti. Nei termini del test delle 16 personalità MBTI, potrebbe incarnare una figura come l’INFJ, il “consigliere”, guidato dall’intuizione e dal desiderio di guarire gli altri. Ma il film mostra anche il lato oscuro di questa vocazione: il peso di chi si annulla per gli altri, senza ricevere mai nulla in cambio.
Il regista ci mette davanti a un destino quasi universale: quello della donna che si fa carico del dolore altrui, schiacciata tra le esigenze professionali e quelle familiari. Holle diventa così il volto di tutte quelle figlie che, nel silenzio, tengono insieme ciò che sta cadendo a pezzi.
Una memoria condivisa
Ellrich ha dichiarato di essersi ispirato ad un’esperienza personale:
“Avevo uno zio schizofrenico che viveva in famiglia. E il film è stato girato proprio nell’abitazione dei miei nonni. Sono cresciuto vedendolo stare sempre seduto in cucina, molto isolato. E quando cresci con questa situazione e poi inizi a parlarne con gli amici, e vedi le loro reazioni, ti rendi conto che questa è una cosa insolita.”
È come se avesse deciso di riaprire una ferita privata per mostrarla al mondo, accettando che il cinema non sia solo finzione, ma anche esposizione di sé. Ed è proprio in questo gesto che In My Parents’ House trova la sua forza più autentica: non si limita a raccontare una storia, ma la trasforma in una riflessione universale sulla famiglia, sul peso della cura e sull’impotenza dinanzi alla malattia.