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Maurizio Lombardi: amo il cinema del “Come sarebbe se…
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2 settimane agoon
«Mi sente bene?».
La voce di Maurizio Lombardi arriva dal telefono con un’intonazione che è già cinema: vellutata, ferma, leggermente teatrale. La sua voce è calda, profonda, a tratti roca. Non serve vederlo per immaginarne lo sguardo. Quello stesso magnetismo che sullo schermo sa diventare inquietante o seducente, adesso vibra tra le pause e sorrisi improvvisi. C’è qualcosa di particolare nel modo in cui si racconta. Ti sembra di ascoltare una partitura: pause calibrate, improvvise accelerazioni, un’ironia che alleggerisce anche i pensieri più gravi. E in effetti, dopo pochi minuti, ci si dimentica del telefono. Non c’è distanza, non c’è posa: c’è un uomo che racconta la sua vita con la stessa naturalezza con cui, sul set, riesce a trasformarsi in cardinali spietati, ispettori inflessibili o creature surreali. Un passato, il suo, fatto di teatro. Con Ugo Chiti impara la disciplina: anni di spettacoli e polvere di palcoscenico. Una gavetta che non profuma di red carpet, ma che scolpisce le ossa. E poi nei panni di personaggi che non hanno bisogno di gridare. Dal cardinale Assente, presenza che inquieta e affascina, come un dettaglio d’arte che ti segue con lo sguardo, all’ispettore Ravini: rigido, elegante, un’ombra che mette pressione anche al protagonista. E poi c’è un nuovo capitolo: dietro la macchina da presa. Con il cortometraggio Marcello, Maurizio Lombardi debutta anche come regista. Un esperimento raffinato. Marcello è il suo modo di mettere a fuoco un immaginario personale, di mostrare quell’universo interiore che fino ad allora aveva solo attraversato come attore. È un gesto di libertà, un atto di fiducia verso la propria visione. Un omaggio a quel mondo, il cinema, che ama follemente, come lui stesso racconta.
Cosa l’ha spinta a raccontare la storia di Marcello, un ragazzo di periferia che si trova immerso per caso nella magia di Cinecittà?
Senza ombra di dubbio il grande amore che ho per il cinema. La storia che ho deciso di raccontare permette a chi la guarda di capire quanto sia importante entrare all’interno del mondo cinema. Soprattutto un ragazzo, anche giovane e piccolo, può trovare una sua identità.
In effetti Marcello, sembra oscillare tra realismo e sogno, dove voleva collocarsi esattamente? Più dalla parte del realismo o del sogno?
Ma guarda, il discorso sta proprio all’interno del cortometraggio. Fuori si muore, dentro la fantasia, invece, si vive. Ed è un po’ questo il concetto. Entrare nel mondo dello spettacolo, del cinema o del teatro, un mondo che noi addetti ai lavori e chi ci orbita intorno conosce bene, ti permette di scoprire quanto stare dentro la fantasia di un progetto possa essere coinvolgente.
Questo è il suo esordio alla regia. Lei è un attore molto impegnato e ha anche alle spalle progetti importanti, non solo italiani ma anche internazionali, quindi com’è stato passare dietro la macchina da presa?
Devo dire che tutte le volte che mi approccio a un lavoro nuovo, che può essere scrivere una poesia, una canzone, un monologo o recitare una parte, mi approccio esattamente come il protagonista del mio cortometraggio, ovvero in maniera molto stupita. Cerco di apprendere e imparare dalle persone che sono intorno a me. E questo il cinema lo rende possibile proprio perché ci sono i diversi reparti: costumi, fotografia, scenografia. Ci sono persone che, spesso, hanno fatto più film di te, e quindi hai la possibilità di scegliere e decidere lo stile che vuoi dare al tuo progetto. Nel caso di Marcello, ho avuto la possibilità di lavorare con Fabrizio La Palombara, che ha fatto a mio avviso un lavoro di fotografia stupendo, e mi ha aiutato anche nelle inquadrature, ha scelto gli obiettivi di alcune immagini. Mi sono affidato al gusto delle maestranze e dei reparti, perché sono quelli che poi sono le fondamenta di un film.
Qual è stata la maggiore difficoltà che ha riscontrato nel girare questo cortometraggio?
Più che difficoltà parlerei di “profonda commozione”. Ti dico la verità, non avevo mai provato una cosa del genere. Quando recito, nel cinema soprattutto, ogni scena è preceduta da un ciak. É il segnale che mi permette di iniziare la mia performance. Dovendo invece dirigere io, mi sono trovato di fronte ad attori e attrici che davanti alla macchina da presa si sono prestati alla mia volontà dandomi quanto chiedevo. E questa cosa mi ha commosso molto e mi ha sorpreso, perché vedere in macchina che, al mio segnale, l’attore mi stava dando esattamente quello che gli avevo chiesto, è stata una sensazione bellissima.
A proposito di performance, in Marcello c’è il monologo finale di Adamo Dionisi che è uno dei momenti più intensi e riusciti. E proprio per questo ha un peso enorme. Non ha temuto che potesse schiacciare un po’ il resto del racconto?
Lì c’è stato proprio un lavoro di voce e di faccia che hanno reso il monologo ancora più profondo proprio in virtù della bravura dell’attore. Che è poi quello che succede nel cinema: i registi o gli sceneggiatori scrivono una pagina, l’attore la interpreta ed è lì che cambia la storia, ed è lì che succede qualcosa che stupisce l’ascoltatore o chi sta guardando il film. Scegliere Adamo e aver avuto la possibilità di averlo nel progetto, mi ha reso molto felice proprio perché volevo un grande interprete per le parole che avevo scritto. E, senza dubbio alcuno, posso dire che lui ha reso, per me, quel monologo meraviglioso, e non posso che esserne contento. In realtà non ho mai pensato che potesse schiacciare il resto del corto perché è una sceneggiatura ben bilanciata, e poi sono rimasto davvero molto soddisfatto delle interpretazioni di Mario Sgueglia e di Francesco Chiechi.
Che tipo di cinema l’ha formata?
Il cinema americano degli anni 70′. I film con Dustin Hoffman: “Cane di Paglia”, “Uomo da marciapiede”, “Rain Man”, e i film di Robert Redford oppure di Warren Beatty. Io amo molto il cinema del “come sarebbe se…”, cioè la tesi estrema di un qualcosa su cui sviluppare poi la storia. Faccio un esempio. Un uomo che ha dei problemi psicologici e fisici viene portato via da un fratello che vende macchine, ecco che nasce “Rain Man” con Tom Cruise e Dustin Hoffman. Cosa accadrebbe se un uomo bello e ricchissimo in giro dentro la sua lussuosa automobile si perdesse per le strade di Hollywood Boulevard e incontrasse una bellissima ragazza di strada? Si innamorano? Certo! Ecco che nasce “Pretty Woman”. Questo è il cinema che mi forma. Al di là della grandezza dei registi, non sono loro ad avermi formato. Sono le storie.
Quando ha deciso che questa era la sua strada?
L’ho capito sin da piccolo. Non mi piaceva andare in discoteca o fare l’aperitivo, mi sentivo sempre fuori luogo. Ero un ragazzino di 14-15 anni già spilungone, e in classe o sull’autobus o in treno, facendo lo spiritoso, riuscivo a far ridere le persone. Lì ho scoperto che avevo una sorta di talento per attirare l’attenzione, per far ridere o commuovere. E allora ho capito che forse la recitazione poteva essere la mia strada.
Adesso che ha fatto il suo primo cortometraggio, che tipo di regista si definisce?
Ma guarda, come ha detto uno dei più grandi uomini italiani che ci ha lasciato da pochissimo, parlo di Giorgio Armani: “Sono uno sportivo, nello sport e nella moda occorre stupire“. E per me è questa la chiave. Quello che sempre cerco di fare, sia come attore che come regista, è stupire il pubblico. Non a caso è quello che ho fatto con il mio piccolo Marcello.
A proposito, in Marcello la periferia romana è vista in una maniera diversa. Ha un po’ cambiato i classici clichè?
Questo è un punto fondamentale, proprio perché la periferia può essere molto poetica, oserei dire pasoliniana o, passami il termine, felliniana. Volevo disegnare una periferia diversa. Quando Marcello entra a Cinecittà si vede un cantiere in costruzione, perché stanno costruendo il T22, il nuovo studio più grande d’Europa; ecco questo mi ha permesso di togliere un po’ di quella banalità poco elegante che si vede nei film girati in provincia che spesso sono brutti e basta. Invece bisogna cercare di portare poesia anche riprendendo un muro con delle scritte.
Marcello lancia un messaggio di salvezza ma anche di cinema inteso come rifugio. Non è un’immagine nostalgica?
No, per il semplice motivo che l’arte a un certo punto arriva a doversi nutrire dei suoi canoni. Ci siamo un po’ persi, la parte artistica del mondo sta soffrendo molto in qualsiasi settore perché è stato detto tanto, forse anche troppo. Oggi un po’ per i social, un po’ perché siamo sempre più connessi, funziona più un piccolo video a volte stupido sui social che un bel film. Allora credo che, come successe nel Rinascimento, bisogna ritornare un po’ a nutrirsi dei testi classici della Roma e della Grecia antica, è lì la grande verità e la sapienza. Quindi, e rispondo adesso alla tua domanda, l’aver portato sul video delle immagini che mostrano come inizia l’amore di un giovane ragazzo per il cinema, è sì un classico, ma evergreen, perché è proprio quello che succede a chi lavora in questo mondo. Ci possono essere tanti stili diversi, ma il cinema si fa in un modo solo.
Dopo il suo primo corto sta pensando di scrivere un lungometraggio?
Si sto pensando a un lungo. Ho scritto dei soggetti e mi auguro di poterli portare quanto prima a diverse produzioni. La parte che mi preoccupa di più è quella economica. Mi piacerebbe trovare i fondi per poter lavorare a un bel film e il cinema costa, è inutile dirlo.
C’è un ruolo che vorrebbe interpretare ma non le è ancora capitato di portare in scena?
In teatro mi è già capitato di interpretare questo ruolo. A me piace tantissimo portare in scena personaggi che hanno delle problematiche molto forti: deformazioni fisiche oppure prostetici oppure tutto ciò che riguarda la malformazione dovuta a una specie di prigione del corpo. Ecco, questo è un tema che mi affascina e mi tocca molto. Quando vedo dei ragazzi o delle ragazze che hanno delle problematiche perché hanno avuto un incidente o hanno avuto delle malattie debilitanti, questa cosa mi attrae e mi distrugge al contempo perché non riesco a capire come si fa ad accettare di nascere perfetti e poi vedere la propria vita modificata da un incidente o una malattia. Ritorna sempre quel pensiero lì: “Come sarebbe se….”. Così come mi piacerebbe tantissimo interpretare uomini che hanno un enorme potere: grandi industriali, grandi politici, perché dietro di loro c’è sempre una grandissima narrazione.
Quindi per lei è molto importante la narrazione.
Senza alcun dubbio. Nasce tutto dalla scrittura, è la matrice, la fonte primaria. Le storie non sono nostre, così come le idee. Noi siamo solo dei tramiti. Abbiamo delle intuizioni, le portiamo nel nostro inconscio, le lavoriamo e ne esce fuori qualcosa che è un nostro modo di vedere la realtà. Posso solo aggiungere che quando nasce una storia bella raccontarla male è un abominio.
A cosa sta lavorando adesso?
Sto lavorando al nuovo film di Giovanni Veronesi. É un film su Dio, è una sua chiave di lettura su come è nata la commedia. Protagonisti sono dei frati e io interpreto proprio un frate che ha avuto la peste, quindi ho un trucco abbastanza impegnativo.
Quindi mi viene spontaneo chiederle, che rapporto ha con Dio?
Io sono un credente spirituale, cioè vale a dire, so che lo spirito è ovunque e c’è più spirito che materia perché un tavolo prende una porzione di una stanza ma intorno c’è il volume della stanza, e questo vuol dire che la spiritualità è miliardi di volte più potente. Così come il non visto. Quindi non so se c’è un Dio ma sicuramente uno spirito potente sì, che poi nelle varie nazioni viene chiamato con nomi diversi, e c’è una spiritualità fortissima che poi è la stessa che nutre un’opera d’arte, perché un quadro pur essendo fatto di colori su tela ha la capacità di far commuovere o spinge migliaia di persone ad andare al museo per vederlo. Quindi penso che ci sia una spiritualità umana, ovvero uno spirito che avvolge proprio il pianeta Terra.
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