Orizzonti

‘Divine Comedy’ o dell’arte di resistere alla censura

Ali Asgari mette in scena l’arte del resiste: tra autorità, censura e immagini negate.

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Nella sezione Orizzonti dell’82ª Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia trova spazio Komedie Elahi (Divine Comedy), commedia iraniana del 2025, distribuita da Goodfellas, diretta da Ali Asgari e scritta insieme ad Alireza Khatami e ai gemelli Bahram e Bahman Ark, che rivestono anche il ruolo di protagonisti principali.

Il titolo internazionale, Divine Comedy, richiama apertamente l’opera dantesca: una scelta non casuale, carica di ironia. Ma perché Asgari ha deciso di accostare il suo quarto lungometraggio proprio alla Divina Commedia?

Divine Comedy, discesa negli inferi del cinema

Bahram Ark e Sadaf Asgari, rispettivamente regista e produttrice di un film, salgono su una vespa rosa pastello per raggiunger gli uffici del Ministero della Cultura, nella speranza di ottenerne l’approvazione alla proiezione in Iran. Ma sono ben consapevoli che li attende una vera e propria discesa all’inferno, prima di poter vedere la loro opera proiettata.

Ispirazioni

Non è la prima volta che Ali Asgari approda alla Mostra del Cinema di Venezia. Già nel 2017 aveva presentato nella sezione Orizzonti il lungometraggio Nāpadid šodan. La sua vicinanza all’Italia, però, non si limita ai festival: il regista ha infatti studiato cinema a Roma, e questa esperienza emerge con evidenza nel suo ultimo lavoro.

Dalla presenza costante della vespa, che assume quasi il ruolo di personaggio, ai numerosi richiami danteschi, il film si struttura come una narrazione per certi versi “morettiana”. Impossibile non cogliere il rimando a Caro Diario nei ripetuti viaggi in moto, così come l’eco di Sogni d’oro nella critica metacinematografica all’industria. Ma se la satira di Nanni Moretti si esprime in chiave ironica e graffiante sul cinema italiano, la satira di Divine Comedy assume i toni di una denuncia malinconica contro la burocrazia oppressiva dell’Iran.

Il migliore amico dell’uomo

Un cane apre e chiude l’intero viaggio narrativo. Nel film che Bahram Ark cerca di far approvare compare una scena in cui un cane è tenuto come animale domestico, dettaglio proibito dalle norme del Ministero della Cultura iraniano, che considera l’animale impuro. Finché quella sequenza non verrà tagliata, l’opera non potrà ottenere il visto di distribuzione. A complicare le cose, il regista ha scelto di girare in turco, sua lingua madre, anziché in persiano come imposto dalle regole ufficiali.

Queste contraddizioni mettono in luce l’assurdità di una burocrazia grottesca e incoerente, spesso al limite del ridicolo. La stessa macchina amministrativa di un regime oppressivo già ritratta da Ali Asgari in opere precedenti, come il più recente Higher than Acidic Clouds. È da qui che iniziano le traversie di Bahram, deciso a distribuire e proiettare il film anche privatamente – gratuitamente o in spazi ridotti se necessario – nonostante l’ostilità di varie istituzioni statali.

Il paradosso si compie nel finale: i protagonisti, dopo enormi sforzi, non riescono a proiettare il film proprio a causa di un cane molesto nel luogo scelto per la visione. Un cortocircuito narrativo che chiude il cerchio. Sullo schermo, al posto del film, compare un telegiornale che annuncia la caduta del regime di Bashar al-Assad, affine a quello iraniano di Khamenei. Le ultime inquadrature mostrano Bahram e il cane scambiarsi uno sguardo carico di speranza, mentre la televisione scandisce la cronaca politica.

Racconto di due cinema

Il tema centrale di Divine Comedy è l’assoggettamento dell’arte al potere. Bahram ha un fratello gemello, Bahman: se il primo appare sommesso e malinconico, con tratti che richiamano il miglior Woody Allen, il secondo è spigliato, sicuro di sé e ben inserito nell’ambiente cinematografico iraniano. I suoi film, pur mediocri e impersonali, godono infatti del favore del pubblico e soprattutto dell’appoggio del governo, perché seguono fedelmente le direttive del regime.

I lavori di Bahram, al contrario, risultano meno accessibili, per alcuni noiosi, ma hanno il merito di essere profondamente personali. In un confronto fra i due emerge con chiarezza lo scarto: Bahman ha sacrificato la passione autentica in favore di una carriera da “mestierante”, priva di ambizioni autoriali, mentre Bahram continua a lottare per un cinema che sappia esprimere la sua visione interiore, nonostante le difficoltà e le censure.

Il colpo grosso

Divine Comedy è commedia nella forma, ma nell’intreccio assume quasi i tratti di un heist movie. Il “colpo grosso” non è una rapina, bensì la proiezione di un film innocuo dall’esterno, ma che in Iran diventa quasi un gesto eretico. A differenza del genere di riferimento, però, qui non c’è azione: o meglio, ce n’è pochissima, quasi nulla.

Il film si caratterizza invece per inquadrature estremamente statiche e di lunga durata, dominate da dialoghi, digressioni e descrizioni. Quasi tutte sono riprese a figura intera, con due sole eccezioni nel finale: un primo piano di Bahram e, subito dopo, uno del cane.

La staticità è una cifra stilistica del film, un’immobilità voluta che è sintesi dello stato dell’industria cinematografica iraniana al giorno d’oggi e riflette l’inerzia stessa del sistema che ostacola i protagonisti. È così che Divine Comedy si rivela, oltre che un racconto ironico e amaro, un viaggio estenuante e grottesco all’interno di un universo che ignora, manipola e censura le immagini.

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