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“Arsa” dei Masbedo: l’arte contemporanea del cinema

Alla XIXa edizione del SalinaDocFest abbiamo intervistato Nicolò Massazza dei Masbedo

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Arsa è come un respiro che viene fuori dall’isola di Stromboli in cui è non solo girato, ma profondamente radicato. Primo lungometraggio narrativo del duo d’arte contemporanea Masbedo (Nicolò Massazza e Jacopo Bedogni), Arsa è un’opera ipnotica e solare, una visione dal mare con una protagonista magnetica, la debuttante Gala Zohar Martinucci. Prodotto con il consueto amore per l’arte da Beatrice Bulgari per Eolo Film, la proiezione di Arsa è stata una degli eventi speciali della XIXa edizione del SalinaDocFest e l’occasione per intervistare il vulcanico Nicolò Massazza.

Quali sono le motivazioni più forti che vi hanno spinto a passare dalla videoarte a un film di fiction dal linguaggio più classicamente narrativo come Arsa?

A certo punto abbiamo sentito l’urgenza di spostare le nostre sicurezze, dal mondo della videoarte, l’opera che sta dentro il museo, a qualcosa di nuovo. Noi amiamo profondamente il mondo dell’immagine e ci siamo detti: perché rinchiuderla in una cattedrale, quella sacralizzata dell’arte? Volevamo spostare questo linguaggio in diversi ambienti. Uno di questi era proprio quello contiguo del cinema. Arsa è nato da un’intuizione mentre ammiravamo la natura potente di Ginostra, a Stromboli, insieme alla nostra produttrice Beatrice Bulgari. Abbiamo immaginato di nuotare nelle sue acque azzurre e di trovare nel fondale una statua antica come un momento panico di rivelazione della vita e dell’arte. Pensavamo di fare un cortometraggio, poi, girando per l’isola, siamo stati colpiti da talmente tante visioni di questa natura così potente, che il progetto si è ingrandito, coinvolgendo Giorgio Vasta nella sceneggiatura.

Il mare e il lutto per i propri padri accomunano i due giovani protagonisti.

Sì. Quella dell’elaborazione del lutto è una grande tematica. I due protagonisti, però, partono da situazioni diverse. Entrambi portano dentro un forte dolore, ma Arsa ha ereditato dal padre la straordinaria ricchezza dell’immaginazione, un padre artista che le ha insegnato la vita attraverso le favole, a non aver paura dei propri mostri. Lei impara che l’immaginazione è pure un’arma di difesa nei confronti delle ingiustizie della vita. Arsa è una figura incandescente, che empatizza con personaggi strani o i bambini, portatori di verità altre. È qualcuno che sembra uscito da un momento del cinema novecentesco come L’avventura di Michelangelo Antonioni. Nel suo spazio, nella sua riserva naturale, arrivano a fare una vacanza tre ragazzi. Uno di loro, Andrea, ha perso il padre di recente, ma, a differenza di Arsa, che ha direttamente raccolto la testimonianza del genitore, lui è un figlio senza comunicazione, è nel teorema dell’incompletezza. Come lei, anche Andrea si isola dagli altri e nasce una fascinazione misterica nei confronti di questa ragazza, si vuole perdere in quell’orizzonte misterioso che è il mondo di Arsa e il suo segreto, composto anche da una statua sepolta nel mare che è un’immagine simbolica junghiana della figura del padre.

Oltre ai due ragazzi, protagonista assoluta di Arsa è l’isola. Immagino siano state non poche le difficoltà a girare in un luogo che conserva la sua natura selvaggia.

Arsa è un film in cui la natura ha comandato tutto. Abbiamo scelto un posto difficilissimo, dove non si va a girare, perché stressi la macchina cinema. Non puoi mettere bagni chimici, non hai nulla, se non zanzare, zecche e meduse. Una situazione alla Werner Herzog che agli artisti fa bene. Abbiamo avuto la fortuna di avere una produttrice straordinaria, perché girare è stato complicatissimo. Abbiamo passato ore e ore a fare e rifare le scene nel mare, perché le volevamo esattamente con quei fasci di luce che entrano nell’acqua e lei ad attraversarli: per questo ci volevano condizioni che non si ripetevano in ogni momento del giorno.

Jacopo Olmo Antinori e Gala Zohar Martinucci

Nel nome della protagonista c’è l’idea di una natura arsa dal sole, la terra bruciata di Stromboli, ma dentro anche il latino ars, che vuol dire arte. Sono due mondi che si fondono in questo film?

Arsa è un nome che non esiste, è una condizione esistenziale, un titolo che è venuto in mente alla nostra produttrice Beatrice Bulgari. Ci piaceva perché ha condizionato l’idea che tutta la fotografia dovesse rispecchiare la luce arsa, che la pelle stessa della protagonista dovesse esserlo. È stata una suggestione che ha aiutato a concentrarci su una condizione emotiva del personaggio, una persona in qualche modo bruciata dentro. Ha dato pure una direzione all’attrice per immedesimarsi in una natura forte, ma anche fragile, potentissima, ma di cui avere molto rispetto. Quindi, sì, in quel nome l’arte ha trovato una sua natura.

Quanto c’è di personale dei Masbedo in un’opera come Arsa?

Tanto, a cominciare da questa ricerca della memoria del padre, che anch’io avevo già perso. Durante il film è morta pure mia madre. In questa mia contingenza personale, in cui sono diventato padre a mia volta, volevo poter raccontare dei padri antipatriarcali, fragili, rotti, bucati, padri poveri, ma ricchi di una testimonianza forte. Una situazione di confronto genitoriale con il mio passato in cui è facile perdersi. Era davvero un materiale incandescente per noi.

Quanti personaggi come Tommaso Ragno, l’imprenditore che cerca un’arte che deve solo sembrare bella per poter essere commerciabile, avete incontrato nella vostra vita?

Se ne incontrano tanti, perché l’arte bella per finta si vende più facilmente. Al compratore piace il quadro da mettere sul divano, se non è un grande collezionista, vuole l’arredamento emotivo. È una cosa che avevo nello stomaco, perché se gli artisti si mettono a lavorare solo per il mercato, a proporre il bello per finta, quello più facile, è meglio facciano altro. Fare l’artista non è una fortuna, è una sfida continua.

Lino Musella e Tommaso Ragno

In Arsa si parla molto di padri che non ci sono più, mai di madri, totalmente assenti come figure corporee: sono metaforizzate nella natura in cui si muove la protagonista?

Dici una cosa giustissima. In Arsa tutto è liquido, amniotico.

Nelle vostre opere di videoarte la natura è una specie di sipario metafisico, quasi sempre inabitabile e apocalittico. La Stromboli di Arsa, al di là della sua solarità, è anche questo?

È anche questo, perché è una natura ignota, selvaggia.

Anima del film, insieme all’isola, è la bravissima Gala Zohar Martinucci in un esordio sorprendente, un’interpretazione dal forte impegno fisico. Come l’avete guidata?

L’abbiamo anche molto ascoltata, per evitare che ci fosse solo il nostro sguardo maschile. Le abbiamo chiesto di trovare il respiro dell’isola. Arsa è un personaggio femminile fortissimo, resiliente, capace di stare sola, senza neppure il cellulare. Di suo, Gala Zohar Martinucci è una ragazza fortissima. Ma ti immagini, a soli diciotto anni, debuttare e avere la macchina da presa continuamente addosso, quasi sempre da sola in scena, in questo posto difficilissimo, con un caldo infernale e, in tutto ciò, portare e comunicare una distanza dal resto del mondo che non sia la natura dell’isola. Gala Zohar Martinucci è di una bellezza perturbante nel film, l’unica bellezza che ci può interessare come artisti, altrimenti si vanno a fare i cataloghi del mondo della moda.

Nicolò Massazza e Gala Zohar Martinucci

Un’altra cosa che colpisce di Arsa è la cura nel sonoro e nella colonna musicale. Come avete lavorato con i compositori Davide Tomat e G.U.P. Alcaro, oltre che con il sound designer Marco Saitta?

È stato un aspetto fondamentale del lavoro su Arsa. Abbiamo lavorato tanto al loro fianco. Ho insistito per rimanere anche nel missaggio. Per quanto riguarda l’orchestrazione della colonna sonora, continuavo a dire che volevo una specie di messa atea. Noi abbiamo sempre lavorato col suono nelle nostre opere d’arte contemporanea. Per Arsa, abbiamo registrato per ore il suono della natura di Stromboli: non solo quello del mare, ma quello del vento, persino quello di un canneto. Volevamo che il pubblico sentisse il respiro di quell’isola.

Arsa è un’artista essa stessa e, nel finale, rifiuta quello che oggi è uno strumento fondamentale delle nostre vite, il cellulare, ormai il nostro prolungamento fisico/tecnologico. Perché questa scelta?

Per noi questa era una scelta fondamentale. L’unico modo che il personaggio di Andrea ha per provare a comunicare con lei è regalarle un cellulare, facendo una cosa carina per sorprenderla e invitarla a una festa. Arsa, però, si rende conto che quello non è il suo linguaggio e mantiene la sua distanza. Tanto che, alla fine, lo brucia, perché lei ha bisogno di sentire il contatto con la natura dell’isola e la sua interiore. Arsa non è un film dalla struttura lineare, abbiamo cercato di lavorare sul simbolico, sull’ellissi narrativa. È un film antitetico al prodotto di massa, all’algoritmo. Ha il coraggio di raccontare la solitudine, la sua sacralità e meraviglia, la capacità di reimpossessarsi di una solitudine creativa. Per una giovane donna rifiutare il telefonino significava immergersi, anche con grande passione, nella centralità della sua solitudine.

Gala Zohar Martinucci

Pensi che quella del cinema narrativo sarà la vostra strada?

Il cinema è un tossicofilo: quando inizi a farlo, hai bisogno subito di rifarlo. Nel prossimo periodo faremo mostre e nuovi progetti video. Nel frattempo, stiamo scrivendo un altro film. Sentiamo l’urgenza di continuare su questa strada. Il cinema, però, è una macchina complicata: ha tempi lenti, devi cercare i finanziamenti. Ma il nostro fuoco è acceso.

In un’epoca di eccesso quotidiano d’immagini, nel vostro mondo artistico lavorate proprio sull’incomunicabilità tra le persone.

L’immagine è come il desiderio, come un serpente, sfugge, è pericolosa, può mordere, devi capirla, metterla in una forma. Oggi siamo in una situazione di dittatura dell’apparecchietto cellulare, tutti vittime di questo scorrimento verticale che facciamo con le dita. Un’enorme quantità d’immagini riempie ogni momento della nostra vita, con tempi d’attenzione sempre più bassi.

Cosa dovremmo fare per difenderci?

Fare educazione all’immagine sin dalle scuole elementari. L’immagine ignorante è pericolosissima, totalmente manipolatoria, non innocente. Oltre il significante che è l’immagine stessa, dobbiamo educarci al significato, al contenuto da inserire. Ci stiamo costruendo un futuro fatto d’immagini e, dunque, bisogna essere lucidi, attenti. Questa emorragia d’immagini confonde nella sua quantità infinita da fast food, in cui anche l’orrore è diventato ovvio, si è normalizzato.

Beatrice Bulgari

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