Benjamin Hindrichs, classe 1995, regista, produttore e giornalista tedesco, si è sempre mosso ai margini delle definizioni. I suoi progetti, sin dagli inizi, tentano di sfumare la linea tra realtà e rappresentazione, tra documentario e soggettività autoriale. Se fino ad ora si era concentrato su estremismo e migrazione, oggi con Daru/n, firma il suo primo documentario portando in scena una storia intima, lenta ed universale, che ha già conquistato due premi al Sitges – Catalonian International Film Festival e che arriva ora anche al Sole Luna Doc Film Festival.
Lucila e la foresta: due vite legate dallo stesso destino
Ogni giorno, Lucila Mouta de Souza accende la radio e guarda la foresta. Non è una scena costruita, ma la ripetizione di un gesto reale. Lucila ha ottant’anni e vive in Amazzonia. Eppure Daru/n non la trasforma mai in un’icona. Non è un simbolo, bensì una presenza. Un corpo fragile che parla senza retorica, una veggente della quotidianità. Quel verde che scruta dalla finestra si fa ogni anno più vicino. E più infuocato. È quel paesaggio a cui chiede: “Cosa succederà quando io e la foresta moriremo?”
La domanda non è simbolica. È la domanda. La stessa che ogni cultura si porta dietro da sempre. Ma qui non c’è mitologia né religione, solo la convivenza fragile tra un corpo umano ed un ecosistema. Daru/nmette in parallelo due organismi che invecchiano, che resistono, che rischiano l’estinzione. E soprattutto, due entità di cui non sappiamo il futuro. Per la foresta si parla di desertificazione, incendi e d’ inquinamento. Per Lucila, il mistero più profondo: cosa si cela dopo la morte? Una delle paure universali dell’intera esistenza umana.
Un racconto spirituale dentro una crisi materiale
Lucila non è una voce generica dell’ambientalismo. È una testimone del tempo, un pezzo di passato che guarda con lucidità il presente. Daru/n parte proprio da questo: dal silenzio che attraversa la sua routine, che oramai si fonde con gli incendi. Il cambiamento climatico non viene illustrato, viene vissuto.
“Boa Vista si è svegliata davanti a un muro di fumo. Lo si sente persino sui vestiti.” recita una delle frasi che rimbomba durante il documentario, preceduto da “Questa mattina, il World Air Quality Index ha classificato Boa Vista come il quindicesimo luogo più inquinato e pericoloso al mondo in cui respirare.”, illustra la radio. La voce alla radio diventa l’unico tramite tra l’isolamento della giungla e la brutalità del mondo esterno. Una connessione che sembra oramai portare soltanto pessime notizie.
La lentezza come forma di resistenza
Non si può ignorare la struttura narrativa di Daru/n. Il tempo è lento, quasi immobile. Ma è proprio in quella lentezza che si consuma la tensione. Lucila compie piccoli gesti: cura, guarda, prega. E intanto, fuori campo, qualcosa si spezza. Perché rallentare è già resistere, in un mondo che brucia velocemente.
Il film ci mostra quanto il cambiamento climatico non sia più un evento eccezionale, ma una routine. La crisi è già quotidianità. In città in parte la vediamo, nella giungla, invece, la si respira, la si teme, la si prega. Lontano da una retorica da catastrofe, qui tutto si traduce nell’attesa che qualcosa finisca. O forse, che qualcosa finalmente inizi.
Più che raccontare una storia, Daru/n, ci ricorda che la storia siamo noi e che forse, come Lucila, anche noi, ogni mattina dovremmo domandarci cosa accadrà quando smetteremo di ascoltare.