Il Cinema Ritrovato

Katharine Hepburn, l’emancipazione del talento

A Bologna una retrospettiva per rivivere l’unicità dell’attrice, vincitrice di quattro premi Oscar

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Se Katharine Hepburn (1907-2003) non fosse esistita, neppure una penna affilata e briosa come quella di Anita Loos o Patrick Dennis avrebbe saputo inventarla, per una rarissima congiunzione astrale tra indomita determinazione, virtuosismo drammatico, versatilità tra media e linguaggi, iconicità controcorrente, serrata riservatezza. L’assolutezza del talento e della lungimiranza canonizzate anche in record finora imbattuti, come i quattro Oscar (Meryl Streep ne conta tre) e il primato assoluto nella classifica delle dive stilata dall’American Film Institute, senza tralasciare le abitudini di moda d’avanguardia, come quella dei pantaloni indossati fuori dal set (per comodità e orgoglio femminile, ma senza gli ammiccamenti perturbanti di Marlene Dietrich).

Ma nonostante il glamour della celebrità lontano dai riflettori, i primi piani di una bellezza spigolosa, lentigginosa e moderna, i nomi altisonanti dei partner con cui condivise lo schermo nel periodo d’oro (da Cary Grant ad Humphrey Bogart, fino al compagno Spencer Tracy), i circoli intellettuali in cui si inserì, la luce della star si smorzò in epiteti ingenerosi e nei rovesci di una sorte beffarda, tra le stimmate di “veleno per il botteghino” e i fiaschi di film oggi assurti a pietre miliari del cinema statunitense.

Katharine Hepburn, una rassegna per una star off

Il Cinema Ritrovato 2025 la omaggia nella sezione Katharine Hepburn: femminista, acrobata e amante, compendiando la sua statura di primadonna contro le logiche maschiliste di Hollywood, la sua vasta gamma interpretativa che spaziò, in linea con le epoche, tra la figura dell’aristocratica emancipata o scatenata e la zitella composta e algida: emerge una spumeggiante e fiera dedizione al lavoro, che la mantenne al timone di sessant’anni di teatro, cinema e tv, durante i quali declinò il suo temperamento tenace e brioso in acre malinconia, senza soccombere allo sfiorire del tempo.

Katharine Hepburn fu la figlia provinciale del Connecticut, nata in seno a una borghesia colta e progressista, circondata da una madre suffragetta e da un padre urologo che divulgò attivamente il valore della profilassi; dopo gli studi al college rafforzati da un eclettico impegno sportivo, Hepburn prima approdò a Broadway con esiti altalenanti, poi a Hollywood, dove esordì con Febbre di vivere di George Cukor, che la elesse a una delle sue attrici preferite dirigendola in Piccole donne, Il diavolo è femmina, Incantesimo, Scandalo a Filadelfia, Prigioniera di un segreto, La costola di Adamo. 

Lavorando anche con Dorothy Arzner, John Ford, Howard Hawks, George Stevens, John Huston, Vincente Minnelli, Joseph L. Mankiewicz, affinò una recitazione volitiva e intraprendente, di forte personalità, umoristicamente sottile nelle screwball comedy di cui fu volto e simbolo; altrettanto di alta classe si rivelò in ruoli drammatici, talvolta in incursioni più sofferte e cupe. Soprattutto nelle commedie riuscì a scalfire la sicurezza e la predominanza virile dei suoi partner con la forza della dialettica delle schermaglie, il dosaggio a orologeria delle battute, la fisicità androgina, scattante, avventurosa. Una virtuosa dell’arte dell’intrattenimento (vinse anche a Cannes, a Venezia, agli Emmy Awards) incidendo nell’immaginario collettivo con una leggiadra opposizione femminista ante litteram a cui dobbiamo un ringraziamento.

Ecco alcune delle pellicole riscoperte al Cinema Ritrovato 2025.

Palcoscenico (Stage Door, 1937)

In un film corale in cui il talento è donna, Gregory La Cava raduna le stelle e i nomi di punta del periodo (oltre a Katharine Hepburn, Ginger Rogers, Lucille Ball, Anne Miller, Eve Arden), per raccontare le luci della ribalta e le ombre dell’insuccesso, in una pensione femminile di attrici debuttanti che è microcosmo dell’eterno scacco dell’esistenza. Alcune inseguono la speranza di un ingaggio, qualcuna muove i primi passi in teatro, tutte guardano a un sogno effimero dove il traguardo di una determina la disfatta di un’altra. La Hepburn primeggia come ragazza ricca e invidiata, supportata dal padre che in realtà ne orchestra segretamente la rovina, per deviarla verso migliori opportunità.

Con ritmo agile e una fluida linearità narrativa nonostante la frammentazione di storie, Gregory La Cava coglie lo scoramento di una professione che flirta costantemente con la precarietà dell’essere umano e ne diventa amara e lucida metafora, dove però l’arte stessa può subentrare come riscatto di tutti, osannati e offesi, come insegna il memorabile finale sul precipizio della tragedia, ovviamente recitato dalla Hepburn. Ritratto sagace della diva per le ascendenze del suo stesso background educativo, è doveroso anche il ricordo come pellicola che influenzò David Lynch per Mulholland Drive, con cui condivide la presenza di Ann Milller, ballerina provetta.

Susanna! (Bringing Up Baby, 1938)

La quintessenza della screwball comedy, vetta ineguagliabile di scrittura briosa e sinergia comica recitativa, congegno a orologeria di umorismo graffiante, buffoneria slapstick, intelligente ribaltamento degli schemi di genere. Com’è noto, il suo regista Howard Hawks lamentava un difetto in questo capolavoro: tutti i personaggi sono svitati, tranne Susan (Hepburn), la più normale di tutte. L’attrice qui veste i panni di un’eccentrica ed esagitata ereditiera pronta a tutto per conquistare il vero amore che trova nel dottor David Huxley (Cary Grant), un impacciato e timido paleontologo alla ricerca di fondi per il suo museo e prossimo alle nozze con la sua assistente. Una raffica di equivoci, pasticci, inseguimenti, concatenazioni rovinose accenderanno scintille di attriti e attrazione tra David e la loquace Susan, scaltro e naïf demiurgo della sarabanda.

Nel mezzo, un cucciolo di leopardo (il Baby del titolo), il furto di un reperto raro da parte del cane George e mecenati dell’alta società newyorkese. Hawks compone le cifre tematiche del suo cinema (l’avventura esotica, il pragmatismo da self made, il gusto per  il parossismo), scalfendo gli stereotipi nella battaglia da sessi, con un lucido e divertito affondo della virilità e il lancio di una nuova personalità femminile. Una riscrittura anticonvenzionale, condita da allusioni sessuali che sfuggirono alla censura, che non piacque ai più, con il tracollo del film verso il fiasco conclamato. Il tempo, però, gli ha conferito la giustizia dell’altezza dei grandi classici.

Incantesimo (Holiday, 1938)

Titolo italiano posticcio e fuorviante: la vacanza di quello originale è un modus vivendi anticapitalista, quindi antiamericano, che implode sotto lo strato di marmi e taffetà su cui scivolano in insoddisfatto equilibrismo i ribelli con garbo di Cary Grant e Katharine Hepburn. La coppia d’oro della commedia furoreggia qui per simpatia e dignità in quella che è l’epitome della sophisticated comedy, sotto la direzione di George Cukor che con dinamica eleganza scrosta la logica affaristica dell’alta società newyorkese attraverso battute agrodolci e studiati legami tra i personaggi. La famiglia Seton sulla Fifth Avenue accoglie con ritrosia il fidanzato della figlia Julia, Johnny Case (Grant), un uomo che “si è fatto da solo” e che ora vuole benedire il traguardo dell’American Dream con un edonismo filosofico: prendere una lunga vacanza per capire se stesso.

Se il capofamiglia, ricco finanziere, gli sbandiera il fascino dell’imprenditorialità che macina infaticabilmente quattrini, l’unica a sostenere questo alternativo stile di vita è l’altra figlia, la malinconica Linda (Hebpurn), una little poor rich girl che vive reclusa in una stanza di giochi con sfregio alla café society. Cukor pennella l’amore con passi di danza e piccole acrobazie orchestrando l’alchimia pressoché perfetta tra i due protagonisti, complici ai nostri occhi di una sferzata politica al sontuoso genere di sognanti beltà, che non soddisfò il pubblico di fine anni Trenta ancora scottato dalla miseria della Grande Depressione. Invece a trionfare è, dietro sottigliezze profonde, proprio il sogno, la libertà, l’autodeterminazione.; insomma, citando il celebre saggio di Stanley Cavell, la ricerca della felicità.

La regina d’Africa (African Queen, 1951)

Una confezione di lusso per una produzione esotica, farraginosa, opprimente, nel cuore del continente nero. John Huston dirige, James Agee scrive, Sam Spiegel produce (Fronte del porto, Lawrence d’Arabia), Jack Cardiff fotografa e Humphrey Bogart e Katharine Hepburn inscenano una storia d’amore  e una pimpante disamina degli opposti sotto le spoglie, in parodica sottrazione, del genere d’avventura. Africa orientale tedesca, allo scoppio della Grande Guerra. Due missionari metodisti inglesi, fratello e sorella, subiscono nel loro villaggio le incursioni dell’esercito nemico; lui muore, lei, Rose, scampa al massacro  grazie al capitano canadese Allnut, grezzo bevitore, e alla sua malridotta barca African Queen. La donna esorta il suo riluttante salvatore ad avanzare per il fiume con la missione suicida di attaccare una cannoniera tedesca, affrontando il rischio delle rapide e altre insidie della giungla.

Qui Katharine Hepburn studia e lima il tipo umano più confacente nella seconda metà della sua carriera, quello della nubile di mezza età, determinata, integra, ma anche vulnerabile all’innamoramento, perfetto bilanciamento all’edonismo scomposto del partner, anche lui con un cuore d’oro. Come per l’ancor più estremo Fitzcarraldo di Werner Herzog, pullulano le testimonianze e le cronache sulla difficile e precaria lavorazione del film, tra cui il libro di memorie della stessa attrice (che lamentò sia il cameratismo machista del duo Bogart-Huston sia il loro alcolismo), ma anche un romanzo di Peter Viertel da cui Clint Eastwood trasse Cacciatore bianco, cuore nero.

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