Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro
‘In The Box’ Intervista alla regista Francesca Staasch
Le sofferenze inscatolate
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2 giorni agoon
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Luca BoveTra le anteprime proposte alla 61esima edizione della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro, segnaliamo In The Box, il cortometraggio scritto e diretto da Francesca Staasch, con l’interpretazione di Giulia Schiavo, Lino Guanciale, Sara Borsarelli, Fabiana Bruno, Irene Lay, Silvia Kornfeind, Pia Engleberth, Arianna Addonizio e Simone Tommasi. È una produzione di Wrong Child.
Marco, un uomo comune di quasi 40 anni, Zoe, una spavalda ragazza di 25 anni e Laura, una signora borghese, sui 50, algida ed elegante, sono creature fragili e tormentate. In the Box esplora la quotidiana fatica di vivere, il tema della perdita, dell’isolamento emotivo e della ricerca del conforto.[sinossi ufficiale]
Nel corso della Mostra pesarese abbiamo avuto il modo incontrare la regista e autrice Francesca Staasch.
La percezione della realtà
Con In The Box proponi la storia di tre personaggi. È giusto definirlo uno spaccato di vita reale?
È uno spaccato di vita, ma non della realtà, piuttosto della sua percezione. I protagonisti de In The Box sono accomunati dalla sofferenza e le loro esistenze sono catturate in un preciso momento che precede la loro esplosione emotiva che, però, non si realizza mai del tutto.
Tre personaggi che soffrono, per cause diverse, ma sempre legate al concetto di morte, sia reale che metaforica, avvenuta o imminente. C’è la madre in pena per la perdita della figlia, l’uomo, che viene mostrato per la prima volta in un cimitero, per cui anche lui, probabilmente, soffre per la scomparsa di una persona cara; ma poi scopriamo che la sua sofferenza è dovuta alla fine di un rapporto sentimentale. Poi c’è la ragazza che scopre che il proprio padre, malato di cancro, ha i giorni contati. Ecco, ci troviamo dinnanzi a tre esistenze scosse dalla morte: una morte reale, già avvenuta; una morte metaforica, da metabolizzare e una morte preannunciata e imminente.
La morte, dunque, aleggia sulla vita dei tre protagonisti, ma la sua funzione è introduttiva, perché il vero significato del cortometraggio ha come focus i diversi modi che ogni uno di noi ha nell’affrontare le tragedie della vita che, prima o poi, siamo obbligati a vivere.
La formula del cortometraggio
L’idea de In The Box nasce anche da un’esperienza autobiografica vissuta in un preciso momento della mia esistenza, in cui facevo fatica a vivere. Allo stesso tempo, però, non mi sentivo autorizzata a lamentarmi, perché in fondo stavo affrontando difficoltà comuni, come può essere appunto la scomparsa di una persona cara o la fine di un amore. È questo il concetto cardine del film. La scelta, poi, di proporre quest’idea attraverso la formula del cortometraggio è stata voluta, perché a differenza del lungometraggio dove c’è sempre una risoluzione, volevo proporre, esplicitamente, una non – risoluzione.
Precisamente cosa vuoi intendere con non – risoluzione?
Nel lungometraggio, basato sul modello narrativo del viaggio dell’eroe che si svolge in un determinato arco temporale, si accumula tensione, che poi si decomprime nel finale, con la risoluzione dei nodi narrativi.
Con In The Box ciò non avviene, o meglio avviene solo in parte, con quelle inquadrature che a me piace definirle pietà, in cui i tre protagonisti espongono le proprie fragilità, con accanto a loro una persona estranea. C’è dunque una specie di liberazione, di decompressione, come dicevo prima. Ma le cause delle sofferenze dei personaggi restano e quando parlo di non – risoluzione mi riferisco proprio a questo.
Uno specchio per riconoscere le nostre sofferenze
Poi è buffo che scrivendo questo cortometraggio, creando i suoi protagonisti mi è venuta voglia di estendere la vicenda, anzi le vicende, in un lungometraggio che, sicuramente avrà una struttura narrativa meno implicita.
Per il cortometraggio, invece, mi sono concentrata sul potere delle immagini, attraverso cui volevo spiegare il tutto. Sono immagini forti, incorniciate da un formato quadrato che richiama alla scatola, perché siamo all’interno di essa che rende prigioniere delle vite e delle sofferenze. Adottando questa procedura, dall’altro canto, ho ridotto all’osso i dialoghi, rendendoli anche un po’ ermetici.
Mi rendo conto che facendo questa operazione alcune sfumature non vengono colte facilmente, ma il mio obiettivo era quello di creare un testo filmico non immediatamente intelligibile; piuttosto quello di trasmettere una sensazione di sofferenza visiva. Così volevo coinvolgere il pubblico emotivamente, sconquassarlo, creando una sorta di specchio attraverso i personaggi, per riconoscere le loro e le nostre sofferenze.
In The box: un testo filmico aperto
La tua scelta di non giungere a una risoluzione ti ha portato a realizzare un cortometraggio intrigante che sollecita la percezione del pubblico. Senza dubbio, offri alcuni spunti di riflessione molto interessanti. Ad esempio, il concetto di morte di cui parlavi prima. Ma lo fai all’interno di un testo aperto che si completa con la partecipazione del pubblico?
Assolutamente sì. Martin Scorsese diceva che il cinema è una questione che riguarda quello che c’è dentro e fuori l’inquadratura. Penso che il discorso si possa estendere anche a tutto ciò che c’è dentro e fuori le storie che mostriamo. Cerco di spiegarmi meglio: quanti dettagli sono espliciti e quanti impliciti. Dunque, vuoi non vuoi, l’interpretazione del pubblico è fondamentale per ogni film.
In The Box ha una struttura circolare. Si apre con inquadrature dedicate ai tre protagonisti, mostrati singolarmente nell’apice della loro sofferenza e poi sul finale ci sono quelle immagini che tu chiami pietà, in cui gli stessi personaggi chiedono esplicitamente, sempre solo attraverso la forza delle immagini, un sostegno emotivo che viene concesso da altri personaggi, fino a quel momento estranei alla storia. Perché avviene questo?
Le pietà
Le immagini a cui fai riferimento erano già state previste in sede di sceneggiatura, con l’uso di dolly su di loro che piangono in maniera sguaiata, molto esibita. È in questo momento che i protagonisti si mostrano per quello che realmente sono e soprattutto vediamo con gli occhi i loro stati d’animo. Subito dopo, invece, li vediamo in diverse situazioni, inserite in spazi costruiti con una geometria molto vigorosa, in cui, diversamente dalle immagini iniziali, manca l’esibizione di un’emozione.
Il cortometraggio si apre proprio con queste immagini, che servano a presentare i personaggi. É a tutti gli effetti un prologo che presenta l’idea centrale che rimanda alla sofferenza, rimarcata da una evocativa colonna sonora, curata da Sebastiano Forte.
È un momento visuale suggestivo che trova la sua chiusura nel finale con quelle immagini che definisco pietà, perché così le ho descritte agli attori per trasmettere al pieno ciò che volevo: un momento i cui i loro personaggi si lasciano andare, nonostante il dolore. Ciò che importa è il sostegno emotivo che ricevono dall’estraneo che appare accanto a loro, perché l’estraneo non ha i mezzi per giudicarti.
Il montaggio de In The Box
Per quanto riguarda il montaggio cosa ci dici?
È a cura di Paolo Turla, insieme abbiamo deciso di adottare una costruzione lineare che non stravolgesse mai la narrazione. Paolo è stato bravissimo nel dare alle storie un ritmo interno ad ampio respiro. Il suo non è un montaggio forsennato, ma pacato ed equilibrato; in questo modo ha perfettamente compreso la mia sceneggiatura, in cui ho cercato di prevedere ogni cosa, ogni singola inquadratura. Infatti nel cortometraggio ho utilizzato tutto il girato, non ho tagliato nulla o quasi. Ogni scena era già stata concepita e studiata, insieme a Carlo Rinaldi, il direttore della fotografia. Carlo è stato un prezioso compagno di viaggio. Possiede il grande talento di penetrare nelle storie e tradurre in immagine gli stati d’animo, i sentimenti dei personaggi e delle vicende.
La scelta del formato quadrato da dove nasce?
È stata l’unica scelta non fatta in sceneggiatura. Una decisione che ho preso dopo essermi confrontata con Carlo Rinaldi. Una decisione che poi rimanda al titolo del corto, con il quale volevo appunto sottolineare l’idea di uno spazio per nulla infinito, ma limitato dove si muovono i personaggi delle vicende. Le loro sono esistenze inscatolate e il formato quadrato vuole rendere visivamente tale concetto.
Il cinema come metafora della vita
A dir il vero, inizialmente, questo formato, che incarna le più innovative tendenze, rifacendosi allo stesso tempo alla tradizione del formato quadrato della hasselblad del medio formato, usato in fotografia, ci ha posto dei limiti, facilmente superati con un proficuo lavoro collettivo, essenza primaria della produzione cinematografica.
Sbaglio nel dire che con In The Box, insieme a uno spaccato di vita, cerchi di evocare anche una certa atmosfera onirica?
In un certo senso sì, perché per me la riproduzione al cinema della realtà nuda e cruda è impossibile. Una formula completamente realista non può essere attuabile. Ognuno di noi vede il mondo secondo il suo punto di vista e vive la propria realtà.
Per questo sono attratta dai registi che assumono un punto di vista forte e deciso. Non ho nessuna pretesa di realismo, piuttosto mi auguro che siano reali le emozioni suscitate dalle immagini. D’altronde, il mio regista preferito è Elio Petri, che molto ha detto sul cinema neorealista, o meglio su chi voleva scimmiottare questo filone, con risultati davvero deludenti. Mi piace il cinema, ma come metafora della vita e non come copia di essa.
Lino Guanciale: attore e produttore
Nel tuo cortometraggio Lino Guanciale ha il doppio ruolo di attore e produttore. Ci puoi raccontare come nasce il vostro sodalizio artistico?
Ci siamo conosciuti anni fa, quando ebbe il coraggio di sostenere un mio progetto teatrale molto sperimentale. Lino è un grande attore atletico, ha una grande consapevolezza corporea. Ha sempre tutto sotto controllo e riesce a farsi penetrare da ogni personaggio che interpreta ed è sorprendente che faccia sembrare tutto molto facile.
Per Happy Days Motel, il mio primo lungometraggio, ho voluto lui a tutti i costi, poi è diventato conosciutissimo al grande pubblico per tutto quello che ha fatto al cinema e alla televisione. Lo stimo tantissimo anche per la sua recente attività di produttore con la Wrong Child, che per il momento è una piccola realtà, ma con grande prospettive di crescita.
È molto raro trovare un produttore come lui, sempre disponibile e tanto professionale, capace di creare le migliori condizioni di lavoro, formando una troupe e un cast davvero eccezionale. Colgo l’occasione di ringraziare le attrici e gli attori (Giulia Schiavo, Sara Borsarelli, Fabiana Bruno, Irene Lay, Silvia Kornfeind, Pia Engleberth, Arianna Addonizio, Simone Tommasi), che hanno reso possibile tutto questo.
Il valore della Mostra di Pesaro
Per concludere, ci racconti la tua esperienza alla Mostra Internazionale del Nuovo Cinema di Pesaro?
Non credo che In The Box potesse avere un’anteprima migliore. La Mostra di Pesaro incarna al meglio il concetto d’indipendenza del cinema, sia per quanto riguarda le nuove proposte, sia per il lavoro di ricerca, per esempio con le retrospettive. La sua è un’opera di educazione alle immagini che si ripete ogni anno.
Mi preme ricordare anche una figura molto importante per la Mostra di Pesaro e per me: Bruno Torri (presidente del Comitato Scientifico della Mostra Internazionale del Nuovo Cinema) che ho avuto la fortuna di incontrare tempo fa e in quell’occasione mi ha aperto nuovi orizzonti. Per questo gli sono molto grata.