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Ai margini si può pensare
Il cinema come luogo di riparo e insieme di sguardo sul mondo. Un racconto in occasione del diciannovesimo compleanno di Taxidrivers
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9 ore agoon
Erano in un’aula dalle pareti gialle e bianche. Le finestre grandi, da cui filtrava parecchia luce. Questa si rifletteva sui banchi e dava fastidio agli occhi dei bambini. Li feriva, quindi loro si coprivano gli occhi con le mani; alcuni esprimevano il fastidio con delle smorfie. Non c’erano tende. Le porte erano di legno, consumate e vecchie. Grandi armadi grigi, quelli tipici che si possono trovare in ogni aula scolastica – che chissà davvero cosa contengono -, a completare l’arredamento minimale della stanza.
Fuori, contaminati spazi aperti, di asfalto e prato verde. File di case vecchie, che affacciavano su cortili sporchi e parchi giochi dismessi. Dalle finestre, panni stesi ad asciugare al sole, che era forte. Solo urla o violenti litigi improvvisi erano capaci di interrompere quel silenzio assordante. I bambini cominciavano a sentire la paura crescere dentro di loro, prendeva vita dentro la pancia, dove si aggrovigliava per mettere radici, infine saliva su, fino alla gola, e raggiungeva il cervello. Bisognava difendersi come si poteva, ed essendo piccoli, a loro bastava poco. Un tentativo, in verità, valeva l’altro: perdersi di fronte alla tv, ascoltare musica, leggere, usare la fantasia. Tutto utile a tracciare un percorso di libertà che andasse davvero al di là di quelle finestre senza tende, verso un’esistenza più leggera.
A piccoli passi, dentro l’aula scolastica, cominciavano a vivere una vita tutta loro. Un percorso fatto di piccole abitudini, di prime vere regole e scoperte. Prima fra tutte, i libri. Nella minuscola biblioteca della scuola, qualche anno prima, scoprivano il meraviglioso mondo dei libri. Piccoli mondi si scontrarono con grandi universi, minime conoscenze si avvicinarono a immensi saperi e piccoli grandi sogni conobbero la grandezza del possibile. Se la possono ricordare, ancora oggi, alcuni di loro, l’emozione di quel primo incontro, segnato dalla novità e insieme dalla curiosità; con un occhio di riguardo, da parte di una di loro, ai libri illustrati di Storia. Ce n’era uno, bellissimo, che si presentò agli occhi della bambina e rapì la sua curiosità: sulla copertina vi erano raffigurate le piramidi egizie. Era la prima volta che le vedeva. Tra polvere, rovine e lunghe dinastie, il libro prometteva un viaggio alla scoperta di una civiltà millenaria: il cantiere brulicante della Storia si stava schiudendo al suo sguardo.
Il primo incontro con il cinema
Erano in un’aula grande, non a caso denominata magna, che somigliava più a una sala cinematografica, che a una classe. Alcuni di quei ragazzini non vedevano l’ora che l’insegnante accendesse il proiettore per cominciare a vedere le immagini muoversi sullo schermo, e seguire la trama che si dipanava attraverso ogni scena, inquadratura o sequenza. Scoprire una storia, vedere i suoi protagonisti, capirne l’intreccio, accompagnati da quella curiosità e quell’entusiasmo che si prova quando si è sul punto di fare qualcosa che nel tempo è stato descritta come un’esperienza diversa o promessa come premio.
Silenzio. Il proiettore si accende. Scorrono i titoli di testa. Inizia la magia. Il primo incontro con il cinema, come esperienza condivisa di quella piccola classe, fu Shining (Kubrick, 1980) ed è facile intuire come proprio quel film, impressionò i più sensibili fra gli alunni. Fu un un primo grande incontro, con un maestro del cinema, che segnò la strada a tanti nuovi incontri di quel tipo nel tempo, specie per quella ragazzina, tutti contraddistinti dalla stessa semplice magia: silenzio, accensione del proiettore, inizio di una nuova storia.
L’arte del racconto toccò qualche piccola interiorità ancora in formazione, e la fece pensare. Rifletteva, al termine della proiezione, la classe, con entusiasmo: “Possiamo farlo anche io?”, “come si fa un film?”, “che cosa vogliamo raccontare?”. E la voglia di sperimentare unita all’immaginazione riusciva a proiettare la volontà fattuale oltre le difficoltà e gli impedimenti più tecnici.
Qualche anno più tardi
Erano in un’aula universitaria, non più uno spazio angusto, invece ampio, con delle grandi tende. Il primo insegnamento, alla mattina presto, era Storia del cinema. Nel silenzio di quell’aula, gremita di giovani tutti protesi com’erano a carpire i segreti di chi fa o scrive di cinema, quella ragazzina divenuta ora studentessa universitaria, sentiva finalmente di appartenere a qualcosa. Ancora e di nuovo avveniva la stessa magia: luci spente, silenzio, accensione del proiettore. Inizio una nuova storia. Poteva sentire dentro di sé quell’emozione che sapeva appartenerle da tempo, che già conosceva, che le riempiva la pancia – non più di paura – , ma di viva curiosità. Stava per accadere qualcosa sullo schermo, che in un modo o nell’altro, le avrebbe parlato, comunicandole una sensazione, un significato, o confidandole un pensiero.
L’incontro: stabilire chi sei tu, e chi sono io. Il cinema era quello, era sempre stato quello: il momento esatto, spaziale e temporale, in cui la vita avviene davanti allo spettatore, e si mostra per com’è. Lo spazio definito di un’azione, che si trasforma in capacità di vedere se stessi e gli altri, per chi sono o per chi vogliono rappresentare. Il frammento temporale nel quale ci si può sentire parte di una storia, che non è mai fittizia, ma sempre condivisa, e quindi reale.
Così, avvenne il magico incontro, proprio in quell’aula universitaria, tra quegli studenti e uno dei registi che avrebbero – alcuni di loro – amato per lungo tempo, e ancora nel presente. C’era anche lei, lì, a perdersi tra le mille fughe e le dolorose attese della Nana, prostituta francese di ventidue anni, interpretata da Anna Karina, di Godard in Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962). Fu una folgorazione. Era il film che per quadri (12 tableaux) raccontava una storia semplice e insieme fortissima, di emarginazione e silenzio, ma anche di forza. Era il film che raccontava di una giovane donna in cerca di se stessa, in fuga e in attesa di qualcosa di migliore. Nana, che guarda a quel mondo dal quale esclusa in parte lo è, con terrore e curiosità. La giovane donna che s’innamora, che ascolta musica, che va al cinema, legge, parla e pensa. Che fa della filosofia, anche senza saperlo, ed insegna qualcosa che si rivela ben radicato nella realtà, in tutta la sua invincibile umanità:
Credo che siamo responsabili di ciò che facciamo. E liberi. Sono infelice e sono responsabile. Fumo una sigaretta e sono responsabile. Voler evadere sono storie. In fondo tutto è bello. Basta interessarsi alle cose e trovarle belle: in fondo le cose sono come sono e niente altro. La vita è la vita
Fino alle lacrime, di Nana, e di quella giovane studentessa in aula, di fronte alla proiezione di un film (nel film) al cinema, La passione di Giovanna d’Arco (Dreyer, 1928): uno dei momenti più umani che avesse sperimentato e condiviso fino a quel momento al cinema. Era pura esperienza, visiva, emotiva ed umana. Contatto con l’altro, con il quale si riesce davvero ad empatizzare, e a calarsi nei suoi panni, ben al di là del limite della quarta parete. Era tutta qui, la magia del cinema: vedere una storia e sentirla dentro.
Fino ad oggi
Grazie alla frequentazione di mondi altri, separati dalla realtà concreta, figli del pensiero e delle idee, la protagonista di questo breve racconto, si rese ben presto conto che sarebbe stato difficile sentirsi ancora sola: aveva trovato un modo per scappare, evadere e approdare altrove. Da quei mondi, meravigliosi, ereditò dunque una convinzione che fece sua per sempre: pensare si può, anche ai margini.