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‘The Watermelon Woman’ e l’intima bellezza di riscrivere la propria storia

Un atto d’amore e di resistenza scavando fino alla radice di se stessi. Con The Watermelon Woman, Cheryl Dunye firma un cult generazionale, una poesia underground, grezza e potentissima, reinventando la memoria per riempire il silenzio della Storia

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Watermelon Woman

Approda su MUBI The Watermelon Woman, film del 1996 di e con Cheryl Dunye. Un manifesto femminista e di amore per il cinema nella sua forma più pura, un atto deciso di riscoperta della memoria storica dell’America segregazionista e del segno che ha lasciato a chi quell’epoca l’ha ereditata. É stato proposto nell’ambito della rassegna Film Crew On Screen.

L’autrice è protagonista, fonte di ispirazione e paziente di un’auto-psicanalisi, condita da uno stile radicalmente Soul, con un pizzico di Hip-hop.

Lo specchio, rotto, di un cinema graffiante e imperfetto, autentico e intimo. L’impresa di raccontare se stessa, per Cheryl Dunye, si trasforma nella valvola di sfogo per un atto politico irriverente, artistico e rivoluzionario a modo suo.

La fame della prima volta

Non capita spesso, in questa strana e disillusa epoca cinefila, di rimanere folgorati da un film che ha quasi trent’anni sulle spalle come se fosse stato girato ieri mattina, in fretta e furia, con la luce sbagliata, la cinepresa traballante, ma l’urgenza viscerale di dire qualcosa che non si può più trattenere. The Watermelon Woman, scritto, diretto, montato e vissuto da Cheryl Dunye nel 1996, fresca di laurea e prima regista nera apertamente lesbica a dirigere un lungometraggio, è uno di quei miracoli che ha saputo regalare il cinema indipendente anni ’90. Un film vivo e senza tempo, che guarda dritto negli occhi.

L’inizio è già un manifesto, una dichiarazione d’intenti estetica, politica e personale. Una di quelle aperture che ti fanno alzare un sopracciglio e incollare allo schermo. Con un montaggio spezzato, Cheryl tramite voce fuori campo introduce sé stessa, il suo lavoro, il suo mondo. È un tono che prende per il bavero e strattona dentro la storia senza chiedere il permesso e una volta entrati, non si vuole più uscire.

Luglio su MUBI

Dunye si mette in scena nel ruolo, metacinematografico e assolutamente autobiografico, di una giovane filmmaker afroamericana lesbica che lavora in un videonoleggio e nel tempo libero gira un documentario artigianale sulla storia dimenticata (o mai esistita?) della cosiddetta “Watermelon Woman”: attrice nera degli anni Trenta, relegata a ruoli stereotipati da domestica sorridente, che non compare nemmeno con un nome vero nei titoli di coda dei film dell’epoca. Storicamente si rifà alla realtà della prima Hollywood, e a come venivano trattati gli afroamericani sul set, senza nome nei titoli di coda e non solo. È un’indagine che comincia per caso ma si trasforma subito in un viaggio personale, viscerale, quasi ossessivo. Una riscoperta che è anche, inevitabilmente, una reinvenzione.

Indipendente-mente

E qui arriva la prima meraviglia: The Watermelon Woman è sì un film su una donna nera queer che cerca di ricostruire la memoria visiva della sua gente, ma è anche, forse soprattutto, un film che inventa. Che finge, mente sapendo di mentire. Che crea un archivio inesistente e lo spaccia per vero. Non per ingannarci, bensì per mostrarci come si costruisce la Storia: a forza di omissioni, manipolazioni, cancellazioni. Se non ci sono prove, la realtà è mai esistita? Dunye, giustamente, se ne frega: se non ci sono tracce, le si inventa. Perché ogni volto, nero, cancellato dallo schermo è una ferita aperta. E ogni bugia raccontata con amore può diventare una verità più autentica di mille documentari puliti e benintenzionati.

Non è un caso il richiamo alla celebre commedia Watermelon Man (L’uomo caffellatte), film del ’70 di uno dei registi più iconici della blaxploitation statunitense, Melvin Van Peebles, nel quale un importante uno d’affari bianco si sveglia una mattina scoprendo di essere diventato nero. Film dirompente per la capacità con cui è riuscito a parlare del pregiudizio razziale negli Stati Uniti con un linguaggio semplice e scene potenti proprio perché ridicole e assurde.

Il tono di The Watermelon Woman è un continuo equilibrio instabile tra fiction, documentario, sitcom e performance. Eppure, incredibilmente, non c’è mai una vera frattura. Ogni sequenza sembra figlia della precedente, anche quando cambia completamente registro. Si passa da una rottura della quarta parete in stile godardiano a un dialogo brillante da commedia romantica, e poi via, senza soluzione di continuità, in un’intervista finta costruita con materiale d’archivio manipolato. Tutto tenuto insieme da una regia che, pur senza fronzoli, sa esattamente dove sta andando. E ci porta con sé, tra le risate e gli schiaffi. Nouvelle vague e Woody Allen in salsa Blaxploitation. Bello, no?

'The Watermelon Woman' (Cheryl Dunye, 1996)

‘The Watermelon Woman’ (Cheryl Dunye, 1996)

Si sente, si vede, si tocca, quella libertà feroce che solo il cinema indipendente più sincero riesce a esprimere. Quello che viene dal basso, dal margine, dalle tasche bucate e dalle idee chiarissime. Cinema artigianale, ma con una visione maledettamente nitida. C’è poi quell’umorismo dolceamaro che solo le persone veramente incazzate riescono a maneggiare. Quell’ironia disarmante che nasce da una lucidità dolorosa: “so benissimo di essere invisibile per voi, eppure sono qui, a parlarvi, a guardarvi in camera, a raccontare la mia storia come meglio credo”.

Senza filtri

Le influenze? Ovunque. Ma tutte filtrate con intelligenza. C’è la Blaxploitation, evidente, rivendicata, adorata – ma mai scimmiottata. Ci sono le sitcom, con le loro luci piatte e le battute da pubblico in studio, mancano solamente le risate finte. Ci sono le docufiction, il cinema verité, e pure un po’ di Spike Lee, se vogliamo. Ma c’è soprattutto una voce autoriale talmente potente da riuscire a stare sopra tutto questo. Cheryl Dunye non fa il verso a nessuno. Non ha bisogno di dimostrare niente a nessuno. Fa il suo film, con le sue parole, la sua faccia e il suo desiderio. Senza filtri.

E parliamo di desiderio, perché The Watermelon Woman è anche un film profondamente sensuale. Corporeo. Carnale. Le relazioni tra i personaggi sono complesse, ambigue, cariche di tensioni erotiche che spesso non vengono risolte. Il rapporto tra Cheryl e Diana, donna bianca con la puzza sotto il naso e una visione del mondo così liberal da risultare, paradossalmente, colonialista, è un capolavoro di sottotesto e di malintesi. È una storia d’amore? Di sfruttamento? Si tratta di una strana e morbosa fascinazione? Probabilmente tutto e niente.

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Ma c’è anche spazio per la comunità, quella vera. Gli amici. I colleghi. Le madri. I circoli lesbici. I bar gay. I video sgranati. I manifesti in bianco e nero. È un film che costruisce un mondo che è stato cancellato, ma che – grazie a Dunye – continua a esistere in questa pellicola disordinata, rumorosa, e bellissima. Un film che dice: ci siamo stati, anche se non ce lo volevate dire.

Invecchiare come una novità

In un mondo come il nostro, dove le piattaforme producono a raffica contenuti dalla dubbia veridicità, The Watermelon Woman arriva dal passato come una boccata d’aria ruvida. Un film dal sapore di pellicola, di lotta, di sudore e di sogno. Un film dolcemente provocatorio, sapientemente brutale. Un atto d’amore nei confronti del cinema, ma anche un gigantesco dito medio a tutto ciò che lo ha reso una macchina di esclusione.

Quindi sì, The Watermelon Woman è un film da vedere e studiare, proiettare nelle scuole o nei cineforum improvvisati con il lenzuolo e un proiettore scadente. È un film che ha fatto la storia. E la sua storia l’ha inventata, perché nessun altro si era accollato il peso di raccontarla. E se questa non è la perfetta espressione dell’atto di fare cinema, allora davvero non so cosa lo sia.

Cheryl Dunye, a quasi trent’anni dall’uscita di The Watermelon Woman, è una regista dalla carriera di tutto rispetto ma che, con soli quattro lungometraggi all’attivo, non ha mai spiccato veramente il volo. Questo però non le ha impedito di diventare una vera e propria icona lesbica nel cinema indipendente statunitense e protagonista di una pagina importantissima nella storia del cinema afroamericano e queer, proprio grazie al suo cult e a quella misteriosa donna dell’anguria, alla quale ha deciso di donare una dignità perduta, la rivincita per un’intera comunità.

The Watermelon Woman

  • Anno: 1996
  • Durata: 90'
  • Genere: Drammatico, Commedia, sentimentale, LGBT
  • Nazionalita: Stati Uniti D'America
  • Regia: Cheryl Dunye