Conversation
‘Marko Polo’ conversazione con Elisa Fuksas
In ‘Marko Polo’ Elisa Fuksas guarda a se stessa e al proprio mondo mettendoli in scena in prima persona con leggerezza e autoironia.
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1 settimana agoon
Una crisi artistica si trasforma nella messa in discussione delle scelte personali di una regista che mette in gioco se stessa e la propria vita. Di Marko Polo abbiamo parlato con Elisa Fuksas.
In uscita come evento speciale nei giorni 26, 27 e 28 maggio Marko Polo è prodotto da Indiana Production e distribuito nelle sale da Fandango.
Elisa Fuksas e il suo Marko Polo
Ti sento molto carica e questo nel film si percepisce dal modo in cui stai davanti alla mdp. D’altronde nel tuo cinema arte e vita si mescolano al punto che chi guarda può capire in un momento che cosa stai attraversando.
Se lo dici te che sei il mio biografo ufficiale vuol dire che è vero. A parte gli scherzi Marko Polo testimonia il tentativo di una ricerca che mette tutto in discussione. Lo scopo è quello di provare a capire qualcosa in più di me e della realtà in un momento in cui la tendenza è quella di passarci sopra preoccupandosi solo di essere performante. Nessuno vuole mettersi in dubbio, nessuno vuole sbagliare perché quello che conta è avere successo. Uscire fuori da questo schema è rischioso perché implica la possibilità di commettere errori in cui nessuno vuole incappare pur sapendo che non c’è progresso senza cadute.
Marko Polo è un film in controtendenza nel suo tornare a farsi le domande essenziali dell’esistenza come quella di ragionare sull’atto di credere. È una questione che non riguarda solo il rapporto con Dio, ma con l’intera esistenza.
Esatto. Non riguarda solo Dio, ma anche quello che decidi di fare, il modo di passare il tempo, le relazioni che scegli di avere, le amicizie. La fede in Dio funziona nello stesso modo. Implica le stesse scelte.
La storia di una crisi
Marko Polo è la storia di una crisi artistica, relativa a un film che non si riesce a fare, e di una personale che riguarda il fatto di credere o meno all’esistenza di Dio.
Sì, perché il film che si ferma doveva parlare di Dio quindi a un certo punto le due cose iniziano a parlarsi. Marko Polo è ispirato a un libro scritto da me incentrato sulla mia conversione. Il film ha ricevuto uno stop perché io non trovavo la forma giusta per raccontare qualcosa che forse non è raccontabile, ovvero Dio. Il libro e il film parlavano di come si diventa cristiani mentre io volevo mettere in scena il momento che vivevo ovvero la maniera in cui rimani fedele alla scelta fatta. Un po’ alla volta mi sono resa conto che questa domanda si può applicare a qualunque cosa della vita da cui la sovrapposizione tra la crisi di una regista che di per sé non interessa a nessuno perché i problemi della vita sono altri e quella della fede intesa nel senso di cui ti dicevo sopra.
Il fatto che il film si fermi per lasciare il passo a questioni di superiore importanza serve anche a sdrammatizzare una narrazione, quella relativa alla difficoltà di fare cinema di cui spesso si parla con toni catastrofici.
Si trattava di dare una scala e una dimensione reale a un problema personale che per me era il fatto di non riuscire a fare un film mentre per un fornaio poteva essere quella di non trovare la ricetta giusta per la pizza o per uno scrittore quello di non riuscire a focalizzare una storia. Un ragionamento, questo, che implica la possibilità di sbagliare. A tutti piacerebbe che le cose andassero sempre bene mentre oggi avere successo è diventato un imperativo per poi scoprire che il suo raggiungimento ci allontana da noi stessi. E poi chi è che definisce cos’è il successo e il suo contrario? Da qui il bisogno di sdrammatizzare questa cosa nella maniera in cui si vede nel film.
Di fatto Marko Polo mette in scena un insuccesso.
Assolutamente. L’ho fatto con grande sincerità perché quello che si vede è tutto vero. Tieni conto che Marko Polo è stato girato in dieci giorni sparsi nell’arco di quattro anni.
La precarietà di Marko Polo di Elisa Fuksas
Come al solito i tuoi film sono delle missioni impossibili. La precarietà produttiva e la sperimentalità che fanno premessa ai tuoi lavori finiscono per non pesare sugli esisti del film che sembrano sempre più supportati di quello che in realtà sono.
Per questo mi fa ridere quando leggo certi commenti velenosi in cui vengo accusata di ricevere finanziamenti pubblici. La verità è che siamo stati aiutati da privati. I soldi non sono stati molti perché giustamente si trattava di un esperimento per tutti, quindi sono ancora più grata ai miei produttori che permettono ancora la libertà, cosa che nessuno fa più perché tutti vogliono stare in un sistema ed essere riconosciuti dal potere.
Beh, devi essere contenta perché alla fine sono proprio i tuoi detrattori a decretare la bontà del tuo film scambiandolo per un lavoro realizzato con molti soldi.
Nessuno si è arricchito con questo film. Gli attori sono venuti gratuitamente mentre io non ho avuto alcun compenso. I produttori meno che mai trattandosi di un tipo di cinema che non fa più nessuno, se vuoi anche anacronistico, ma molto contemporaneo perché poi si parla di temi come la morte, il tempo e il senso della vita che riguardano tutti.
Richiami e citazioni
Guardando il film mi è venuto in mente Hannah e le sue sorelle in cui il protagonista, sopraffatto dalla paura di morire, si interroga su quale sia la religione più rassicurante in materia di al di là.
Non ci avevo pensato, ma ora che me lo dici anche io vedo delle analogie. Tieni conto che anche io, come il personaggio di Allen, soffro di acufene.
Entrambi i film traducono con leggerezza le ansie e i dubbi legati all’incomprensibilità della morte.
Proprio così. La vertigine provocata dal confronto tra la finitezza dell’uomo e l’eternità di Dio si può risolvere solamente con l’ironia, senza di quella credo sia difficile farcela.
Il cinema di Elisa Fuksas: non solo Marko Polo
Nel tuo cinema l’atto di credere è il punto di partenza per mettere in discussione tutto il resto. Succedeva anche in Albe dove si parlava della possibile esistenza degli extraterrestri.
Diciamo che è un po’ il mio sguardo sulle cose e sul mondo, quello che mi permette di aiutare gli altri a vedere in maniera diversa. Me ne sono accorta anche nel corso delle anteprime dove molte persone si sono commosse non tanto per la presenza di scene struggenti, ma semplicemente perché si sono riconosciute nella finitezza del nostro essere. Questa è una cosa che emoziona e che ti spinge a cercare un senso della vita che va oltre la soddisfazione di avere milioni di followers.
Marko Polo ritorna spesso sulla consapevolezza che il successo non soddisfa la sete di esistenza che c’è dentro di noi.
Il successo finisce per farci smettere di cercare ed è molto pericoloso perché porta le persone a rincoglionirsi, concentrate come sono su un unico obiettivo. Senza accorgersene diventano insopportabili e ripetitive. Per evitare di diventarlo l’unico antidoto è non essere convinti di niente.
Il modo di raccontare
In questo film, come in altri, ti metti in scena attraverso un’autoanalisi anche feroce delle tue paure e dei lati più oscuri del tuo carattere, quelli di cui di solito non si parla. Nel farlo stai attenta a non prenderti mai sul serio come succede nella scena della confessione in cui riveli di aver tradito l’amore di un’altra persona come pure di aver augurato ad altri tutto il male possibile.
Parlo di cose che prima o poi tutti abbiamo pensato, si tratta solo di avere il coraggio della nostra umanità. Molto di quello di cui si parla è il risultato di scene appartenenti a copioni che di volta in volta avevo scartato ed è un miracolo che sia riuscita a fare stare insieme pezzi di film così poco omogenei.
La sensazione è che il tono tragicomico del film abbia su di te un effetto catartico perché il cinema per te è sempre stato un mezzo per parlare dei tuoi fantasmi. Mettere in scena se stessi all’interno di un personaggio può risultare rassicurante, forse per questo tu non ti accontenti di ciò e preferisci apparire con il tuo nome e cognome, eliminando così qualsiasi forma di mascheramento. Così succede anche agli altri perché le persone che ti affiancano sono quelle che lo fanno anche nella vita.
Sì, è qualcosa di differente da quello che succede per esempio nel film di Umberto Contarello perché ne L’infinito lui interpreta un personaggio mentre la mia è autofiction. Ci sono io, la mia vita. Non è che improvvisamente abbia avuto voglia di diventare attrice. È solo che per mettere in scena il mio mondo avevo bisogno di essere io a stare davanti alla mdp.
Richiami con Valeria Bruni Tedeschi
In questo senso il cinema presente in Marko Polo mi ha ricordato quelli diretti da Valeria Bruni Tedeschi, anche nella maniera in cui non fate sconti alle contraddizioni delle vostre persone. Non so se sei d’accordo?
Amo la Bruni Tedeschi sia come attrice che come regista. Anche lei fa recitare i suoi famigliari e amici per cui ti rispondo di sì.
In entrambe ritrovo una trasparenza che coincide con la leggerezza e l’ironia con cui vi rivolgete a voi stesse nell’intento di non dare troppa importanza ad argomenti che di per sé l’avrebbero.
Sì, perché poi quello è l’unico modo per restituire un po’ di verità. Della tua vita non interessa a nessuno mentre se in qualche modo riesci a far perdere i contorni di te allora può diventare interessante. Peraltro montare se stessi è molto complicato perché il rischio è quello di identificarsi con la propria persona laddove invece almeno per me è stato necessario prendermi in considerazione come interprete di un ruolo perché io non mi piaccio mai e perché poi ci sono molte cose che vanno a sollecitare la mia vanità. Così invece non è mai accaduto e questo è stato un bene perché, avendo pochi mezzi, la luce delle inquadrature non poteva nascondere le imperfezioni della pelle. Abbiamo dovuto prendere quello che veniva e questo ha reso tutto più reale. Il fatto che chi ha visto il film si è emozionato ha dato senso al mio lavoro perché è l’unica cosa che mi interessa.
A essere emozionante secondo me è anche il fatto che ogni nuovo film aggiunge un nuovo tassello alla conoscenza che lo spettatore ha di te. L’emozione sta anche nel fatto di ritrovarti e di percorrere una tappa della sua vita insieme alla nostra ogni volta con un pizzico di confidenza in più.
Questo mi fa piacere perché se in ciò che racconto c’è una risonanza ho raggiunto il mio scopo.
L’evoluzione di Elisa Fuksas
Rispetto alle prime volte in cui tendevi a nasconderti dalla mdp oggi ti vediamo a tuo agio e disinvolta, segno di una crescita e di una consapevolezza che vanno di pari passo con i progressi del tuo cinema.
Inizialmente la rifuggivo, poi ho capito che era l’unica possibilità per raccontare il mio mondo quindi sono stata in qualche modo costretta a farlo anche se non volevo fare l’attrice. Sono stati i miei produttori a convincermi per cui le scene che poi ho montato sono quelle tratte dai diversi copioni in cui sono in scena per verificare se la mia presenza poteva funzionare. Così ho fatto recitando prima con i miei famigliari, poi con gli amici infine con gli altri attori.
Sul piano cinematografico la dialettica tra realtà e finzione corrisponde a quella tra credere e non credere. Non so se ci avevi pensato o è venuta fuori così, però il risultato rende la forma coerente al contenuto.
Le tue domande sono sempre molto sottili per cui se tu vedi questa corrispondenza vuol dire che esiste. A posteriori è facile trovare un senso a quello che uno fa. Il difficile è quando le cose non sono ancora scritte. Poi io credo che le storie a un certo punto prendano vita nella forma migliore che possono nel senso che un film su questi temi fatto da me non poteva avere altro tipo di rappresentazione. Magari poteva essere maggiormente strutturato assumendo una fisionomia narrativa più accentuata, ma così avrebbe perso la sua natura che poi è quella di un gruppo di persone che si fanno delle domande.
La nave Marko Polo da cui il film prende il titolo diventa fin da subito un luogo della mente, con corridoi e stanze destinate a rappresentare gli spazi del tuo pensiero. Lavorando su luci e scenografie, architetture e luoghi diventano un luogo metafisico.
Penso che sia una questione di sguardo, di come vedo il mondo e di come lo interpreto. Per me tutto parte da lì, tanto che la scelta delle mie storie dipende anche da dove decido di girarle.
La stasi lavorativa diventa anche quella della nave che, seppur in viaggio, sembra non spostarsi neanche di un metro dal punto di partenza.
Sì, lo so. In realtà la nave è in viaggio, ma ho voluto che si avesse la percezione opposta. Come hai giustamente detto questo rimanda all’interruzione del film ma è legato anche alla considerazione di un tempo in cui passato, presente e futuro sono una cosa sola.