RIVIERA INTERNATIONAL FILM FESTIVAL

‘Yintah’: la lunga battaglia di una nazione raccontata da due leader

Recensione di ‘Yintah’

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« In tutto il Canada, tutti lottano per la propria terra, la “Yintah”. I “Nïdo”, i bianchi, la chiamano “territorio”. Tutti hanno un nome per definirla. Noi la chiamiamo “Yintah“. »

Al Riviera International Film Festival (qui il programma) è stato presentato Yintah, un documentario che racconta una battaglia lunga dieci anni contro la costruzione dell’oleodotto Coastal GasLink, nella Columbia Britannica. Diretto da Jennifer Wickham, Brenda Michell e Michael Toledano, il film si concentra sulla resistenza del popolo Wet’suwet’en, che da sempre difende le proprie terre ancestrali – mai cedute al governo canadese – con dignità e coraggio. La distribuzione è affidata a Netflix (in Canada, USA, UK e Irlanda).

Non è solo un film politico: è qualcosa che parla anche al cuore. Parla di radici, giustizia climatica, autodeterminazione e di cosa vuol dire davvero appartenere a un luogo.

Il significato di Yintah

La parola Yintah, nella lingua Wet’suwet’en, significa “terra”. Ma in realtà è molto di più: è spirito, memoria, un legame profondo. Il documentario segue da vicino due figure centrali nella lotta: Howilhkat Freda Huson e Sleydo’ Molly Wickham, due leader donne che hanno messo la propria vita al servizio di qualcosa di più grande: le loro origini.

Freda, wing chief del clan C’ilhts’ëkhyu, ha lasciato tutto per tornare nella terra dei suoi antenati. È diventata un punto di riferimento per la sua comunità e per chiunque creda nella sovranità indigena. Molly, wing chief del clan Gidimt’en, ha affrontato in prima linea la polizia canadese durante l’azione “Coyote Camp” e guidato un blocco durato 55 giorni. Le immagini del film – arresti, presidi, rituali – mostrano la forza di chi lotta non solo per un pezzo di terra, ma per un’intera cultura e il futuro di quest’ultima.

Una battaglia che dura da tempo

Girato nell’arco di un decennio, Yintah è un racconto profondo e sincero. I registi non stanno dietro la cinepresa da spettatori: sono coinvolti, presenti, parte della storia (venendo persino arrestati insieme ai Wet’suwet’en). Non c’è spazio per il sensazionalismo, ma solo per la realtà nuda e viva: le assemblee, gli accampamenti, le incursioni della polizia, i tribunali. Ma soprattuto, di tante grida di battaglia contro chi strappa via i diritti con la forza.

Il film riesce a restituire la complessità di una resistenza che non è solo contro un oleodotto, ma contro tutto un sistema che ignora – o peggio calpesta – la volontà e l’esistenza dei popoli nativi. Oltre alla loro battaglia, il docuemntario porta alla luce l’importante eredità degli antenati Wet’suwet’en, cosa li spinge a difendersi nel presente e la loro speranza verso un futuro dove, coloro che nasceranno, vivranno secondo le leggi del clan.

La dissonanza tra parole e realtà

C’è una domanda che Yintah solleva e che continua a rimbombare nella testa: che sneso ha dire di trovarsi su “territori non ceduti” se poi si agisce come se quella terra non appartenesse davvero a nessuno?

Il documentario mostra con forza questa contraddizione. Da una parte, ci sono le leggi che (almeno sulla carta) riconoscono i diritti delle popolazioni indigene. Dall’altra, invece, decisioni politiche ed economiche che sistematicamente ignorano quei diritti. E così, dietro ogni parola apparentemente rispettosa, si nasconde un gesto che ne nega il significato. Questa è la violenza invisibile del colonialismo, che non si limita all’oppressione passata ma è ben viva nel presente, in particolare quando si tratta di decisioni politiche che minano la terra, l’ambiente e la cultura indigena. Le parole vuote di “riconoscimento” e “rispetto” rimangono tali finché non sono accompagnate da azioni che proteggano veramente i diritti e le terre dei popoli nativi. Il film evidenzia l’esigenza di guardare oltre le dichiarazioni ufficiali e a confrontarci con la realtà quotidiana delle lotte indigene.

L’impatto duraturo di Yintah

Yintah si distingue come un’opera che va oltre il cinema, diventando un atto politico e un invito all’azione. In un’epoca in cui le immagini scorrono rapidamente e le lotte vengono dimenticate, questo film si prende il tempo per raccontare la complessità, restituendo dignità e centralità a chi spesso viene escluso dalla storia ufficiale. Soprattutto, permette di raccontare una lotta importante attraverso la testimonianza diretta di chi è parte della battaglia. Il nostro ruolo è quello di non voltare la testa dall’altra parte, ma informarci sulla verità dei fatti.

È un documentario che merita attenzione, non solo per la qualità cinematografica, ma per l’importanza del messaggio che trasmette. Yintah invita alla riflessione e all’empatia, offrendo uno sguardo autentico su un’oppressione che, sebbene distante geograficamente, è vicina per le tematiche universali che affronta. Inoltre, ci lascia con una domanda essenziale: cosa possiamo fare noi per aiutare?

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