Festival Internazionale del film di Roma: “Blue sky bones” di Cui Jian (In Concorso)
La sensazione che si prova è che il regista, un po’ inesperto, abbia voluto concentrare in un solo film troppe trame, e che non abbia saputo gestire tutta questa materia. Troppo impeto e poca capacità di ordinare una materia che aveva in sé una forza espressiva interessante. Un’occasione mancata
Finalmente visiono un film in concorso, Blue sky bones del regista cinese Cui Jian. Non avendo mai sentito nominare l’autore in questione, mi faccio un giretto su internet e scopro che è stato un’icona rock in patria e che, a causa della sua musica, ha subito violente censure da parte delle autorità cinesi nel corso di tutti gli anni ’90. Questa informazione è utile per comprendere l’importanza che la parte musicale riveste nel film, anzi si potrebbe proprio dire che è una canzone la vera protagonista del lungometraggio d’esordio del regista cinese.
La storia è intergenerazionale, si sviluppa dagli anni settanta ad oggi, e mette in scena le vicende di una famiglia – padre, madre e figlio – attraverso le quali viene affrontata la questione della libertà, declinata in maniera differente a seconda delle epoche storiche cui ci si riferisce. Tutto ruota intorno a una canzone, intitolata “La stagione perduta” che, osteggiata dai caporioni della rivoluzione culturale, comporterà la condanna della protagonista ai lavori forzati. Qui conosce un uomo, e, pur non amandolo – in realtà era attratta dall’amico omosessuale -, lo sposa, e dalla loro unione nasce un figlio, Zhong Hua. Nel frattempo la donna scopre che il marito è una spia e, mentre sta fuggendo portandosi via il figlio, gli spara, provocandogli una ferita.
La narrazione è volutamente molto confusa, c’è un montaggio alternato che dagli anni settanta ci catapulta alla contemporaneità in cui Zhong Hua, anch’esso alla prese con la canzone della madre, si trova a doversi districare dalle maglie del sistema capitalista, con riferimento alle logiche del mercato discografico e alla apparente liberta della rete.
Insomma, c’è un evidente attenzione al problema della censura esercitata nei confronti della libertà d’espressione, però le questione sollevate non vengono analizzate adeguatamente, poiché i contesti storici rimangono solo uno sfondo rispetto alla saga famigliare che prende il sopravvento nella narrazione. La questione emotiva – l’amore negato e ricercato – svetta in maniera non misurata nell’economia della storia, e ci si sente smarriti rispetto alla mancanza di linearità del racconto (eccessiva anche la presenza della voce off, proprio per sopperire alla mancanza di rappresentatività delle immagini). La sensazione che si prova è che il regista, un po’ inesperto, abbia concentrato in un solo film troppi elementi, e che non abbia saputo gestire tutta questa materia. Il risultato è un po’ un pasticcio che non convince. Per non parlare poi della sequenza finale in cui, per celebrare la tanto osteggiata canzone, assistiamo a una sorta di videoclip abbastanza kitsch, che sa di “cineseria”.
Quindi, troppo impeto e poca capacità di ordinare una storia che aveva in sé una forza espressiva interessante. Un’occasione mancata.