Mauro Corona – La mia vita finchécapita del giovane regista Niccolò Maria Pagani, in uscita sugli schermi italiani, viene presentato in anteprima nella selezione ufficiale del Trento Film Festival. È prodotto da Ushuaia Film e Wanted Cinema.
Un ritratto sincero e intenso
Si tratta di un ritratto sincero e intenso di Mauro Corona, scrittore, alpinista, scultore friulano diventato un volto noto della televisione italiana. Un personaggio che, piaccia o no, non può lasciare indifferenti grazie alla sua sincerità e al suo essere fuori dagli schemi.
Il pregio di questo documentario è quello di mostrare Corona nel suo ambiente, quello della valle alpina del Vajont, fornendo un ritratto vero dove lo scrittore getta la maschera del personaggio pubblico facendosi riprendere nella sua vera essenza. Mettendosi “a nudo” senza pudore e senza infingimenti, parlando della sua vita, delle cicatrici che questa gli ha lasciato, dei rimpianti che si porta dietro. Commuovendosi davanti alla telecamera senza vergognarsi delle lacrime che gli inumidiscono gli occhi e ammettendo, così, la propria fragilità.
La macchina da presa di Pagani lo segue fin dentro la sua “tana”, come Corona ama definire il luogo in cui scrive, legge, beve il suo vino, intaglia il legno per ricavarne pregevoli sculture e si tiene compagnia con il suo gatto Dalton. In altre occasioni lo accompagna lungo i sentieri che dal paese di Erto si snodano lungo i fianchi di quella montagna che ha subito, nel passato, l’offesa atroce della tragedia del Vajont, una ferita profonda e mai completamente rimarginata che ha segnato per sempre la vita di Corona e di tutti gli abitanti di quei luoghi.
Un film che parla di rimpianti e dei fantasmi con i quali Corona convive
Mauro Corona – La mia vita finché capita è un’opera in cui la montagna, quella montagna, diventa a sua volta protagonista insieme allo scrittore; un film che parla di morte, di rimpianti e di fantasmi del passato e del presente, con i quali Mauro convive aiutandosi con il vino e con quei pochi amici con i quali si ritrova.
Un lungo monologo con cui lo scrittore si svela, ricorda i genitori – il padre violento e la madre maltrattata – con i quali non è stato in grado di stabilire un vero e proprio contatto, parla con affetto dei nonni. Un racconto che Corona fa senza paura, dimostrando la sua totale sincerità mentre ci accompagna a scoprire i luoghi in cui vive e con i quali ha stabilito una vera e propria simbiosi. Inoltrandosi fra le case diroccate della vecchia Erto distrutta dalla tragedia del Vajont, un posto ormai abitato dalle ombre dei morti che Corona ricorda a uno a uno rammentando i giorni della propria infanzia. Luoghi in cui la malinconia è così solida da poterla tagliare.
Lo osserviamo accogliere i pochi ma veri amici che gli fanno visita: Piero Pelù, Davide Van De Sfroos e Erri De Luca, con i quali si perde in chiacchierate davanti al fuoco di una stufa e a un bicchiere di vino, o mentre gioca alla morra con gli amici del paese. È bello il passaggio in cui Erri De Luca, scrittore altrettanto sensibile quanto Corona, confessa di aver fiducia nell’avvenire perché in mano a una gioventù “che si occupa di mondo e che identifica il proprio futuro nel futuro stesso del mondo”, una gioventù che “sente la responsabilità di agire nei confronti del nostro pianeta”.
Corona si racconta mostrandoci la sua vera essenza
Così, fra incontri, monologhi e brani tratti dal suo romanzo “Le altalene” letti dalla voce magnetica fuori campo di Giancarlo Giannini, Corona si svela, mostrandoci la sua essenza, libera e selvatica; togliendosi, come dice egli stesso, la maschera perché non vuole più essere frainteso.
Niccolò Maria Pagani è abile nel ricavare dall’incontro con lo scrittore di Erto un film privo di qualsiasi retorica. Un’opera in cui la fotografia di Luca Da Dalt fa apparire la montagna in tutta la sua complicata bellezza, dove il lento passare delle stagioni dona all’uomo un senso di pace e malinconica tristezza.
Una montagna che, come scrive Corona stesso, “non gioca scherzi. Se ne sta lì, impassibile, immobile, muta e severa, ma non ce l’ha con nessuno”. Un posto dove, nel romanzo letto da Giannini,“il vecchio guarda indietro. Vede amici scomparsi. Molti sulle montagne. Nel ricordo, l’altalena della solitudine va e viene”.