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Una vita all’assalto – Intervista a Militant A
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1 anno agoon
Nel 1990 esce in italia il disco Batti il tuo tempo, degli Onda Rossa Posse. Il primo disco di rap in italiano. Da qui l’inizio di una storia che dura da più di trent’anni. Militant A, fondatore del collettivo, è il primo a credere che il rap in italiano possa avere successo. Nessuno ci credeva, ma lui ha osato e la storia gli ha dato ragione. Dagli Onda Rossa, che prendevano il nome da Radio Onda Rossa, presto nascono gli Assalti Frontali. Il gruppo, ancora pienamente in attività, ha ispirato generazioni di rapper che successivamente hanno scritto altre importanti pagine dell’hip hop in Italia.
Il film sugli Assalti Frontali
Militant A, ancora oggi leader del gruppo, si è raccontato, insieme ad altri componenti, nel nuovo film Una vita all’assalto. Il documentario, presentato quest’anno in anteprima al Biografilm di Bologna, diretto da Paolo Fazzini e Francesco Principini, prodotto dai Manetti Bros, si pone l’obiettivo di ricostruire, tramite i racconti dei protagonisti, una pagina fondamentale della storia della musica italiana e della lotta politica. Quelli descritti nel film non sono solo musicisti, ma veri e propri attivisti. Ecco la nostra intervista proprio a Militant A, artista con più di trenta anni di carriera alle spalle, che viene celebrato con Una vita all’assalto. Il film, dopo la presentazione al Biografilm di Bologna, sta girando l’Italia in diversi cinema.
Com’è nata l’idea del film? Come sei stato introdotto nel progetto?
È venuto a parlarmi Paolo Fazzini, il regista del film insieme a Francesco Principini, che conosco da tanti anni, perché anche lui faceva rap negli anni ’90, e mi ha detto che gli sarebbe piaciuto fare un documentario su Assalti, per tanti motivi, soprattutto per il fatto che secondo lui Assalti non era abbastanza rispettato. Insomma, a lui faceva piacere un focus sugli Assalti. E quindi ha iniziato a lavorarci, ha raccolto moltissimo materiale, soprattutto del periodo degli anni ’80 e ’90, ha trovato riprese di vecchie telecamere, vhs, immagini che tanti non hanno mai visto e prendono tutta una parte nel documentario. Poi ci sono io che racconto un po’ tutta la nostra storia, che segue un po’ una linea temporale e un po’ va per argomenti. Alla fine il film era più lungo, due ore e mezza; poi però è stato tagliato e siamo arrivati a un bel risultato. È la storia di un gruppo, ma anche la storia collettiva di un’esperienza che c’è stata in Italia che non è stata né nel mercato, né nelle istituzioni. Una storia di autogestione. Nel documentario è bello perché tutte queste cose sono accompagnate dalle canzoni.
Rispetto a quando voi avete iniziato, il contesto sociale e artistico di Roma e dell’Italia che vivevate è cambiato?
Ovviamente è cambiato, sono passati tanti anni. Nel documentario si vede anche come ci vestivamo e come parlavamo, anche se poi certe idee e certi valori sono rimasti. È interessante vedere, ad esempio, dei concerti del ’90 in cui stavamo lì con le bandiere della Palestina e come anche adesso stiamo ancora con la bandiera della Palestina. Certe cose restano, quelle importanti. Ovviamente certe cose sono cambiate. Il rap non lo faceva ancora nessuno, la gente lo doveva ancora scoprire, mentre ora è il linguaggio comune di tre milioni di ragazzi, lo vogliono fare tutti. Però quell’energia ce la vedo ancora adesso. Noi avevamo tanta speranza per il futuro e tanto rispetto per il passato. Adesso magari è tutto molto incentrato sul presente.
Anche fare musica magari ora è più semplice. Sei d’accordo?
Noi non avevamo il telefono e i social, avevamo i volantini, i manifesti, il passaparola e il ritrovarsi in strada. Era una bella cosa. Il film è montato con i tempi attuali, però è bello vedere le cose che ci sono state all’epoca. È anche istruttivo e su certe cose alcune persone mi hanno detto che è rassicurante, perché ti fa vedere che tante cose che abbiamo fatto non sono andate perse. Ad esempio, tutte le cose che abbiamo fatto con i bambini, che si vedono verso la fine del documentario. Il lavoro che abbiamo fatto ha permesso a questi ragazzi di avere una vita migliore, di farsi forza per difendersi da tante cose.
È interessante vedere come il rap intrattenga un dialogo molto forte con altre forme d’arte, in particolare con il cinema e si vede come questo rapporto sia stato importante anche per voi. Volevo sapere, secondo te, quanto questo rapporto sia importante.
Sì, comunque la parte visuale della musica è molto importante. Sia per i video musicali, sia per il cinema. Ad un certo punto, noi abbiamo incontrato Gabriele Salvatores e ultimamente abbiamo fatto anche la colonna sonora ad un film che si chiama Lala, è un bellissimo film. Comunque è bella questa cosa, poi il rap è un po’ la colonna sonora della realtà e del quotidiano. Comunque quando c’è questa possibilità di essere anche cinema è interessante. Alla fine si lavora sulle emozioni, per me l’emozione è la porta della conoscenza e tutto ciò che dà questa possibilità è importante.
Nel film infatti ho notato un’attenzione alla componente delle emozioni e una costante nel film è il tema della morte. Volevo sapere: tu, a livello umano e artistico, come hai affrontato questa componente della tua vita? E volevo sapere che ruolo ha giocato la musica per te.
Questa è una cosa importante, secondo me. Come hanno fatto tanti scrittori. Descrivono persone che hanno conosciuto e hanno scritto dei pezzi di storia importanti. Si racconta quello che queste persone hanno fatto e cosa sono state. Io ho sentito questa esigenza di raccontare, fin dal mio primo incontro ravvicinato con la morte. La possiamo considerare anche una missione, di un artista, di un rapper, che anche io mi sento di intraprendere. Ho sentito questa necessità. Raccontandole, mi sembra anche di dare di più un senso alle cose. È un modo anche per elaborare magari il dolore. Lo tiro fuori in questo modo e magari sto meglio.
È un modo anche per colmare un mancanza?
Sì, l’assenza, il vuoto che si crea. Viene colmato con un’opera d’arte e poi è giusto andare avanti.
Mi interessava sapere, anche se forse non è facile, se c’è una canzone o una strofa delle tue che ti rappresenta particolarmente.
Io sono sempre andato un po’ avanti. Una di quelle che mi rappresentano adesso è una del nuovo disco che uscirà. Riguardando indietro ci sono tantissime canzoni belle, ogni periodo ha la sua. Comunque quelle che mi rappresentano di più sono quelle con cui io vado avanti. Questa del documentario è stata anche un’occasione per riaffrontare tutta un serie di cose che avevo pure un po’ rimosso; uno lo fa anche per difendersi perché il passato ti mette di fronte a emozioni o persone che non ci sono più. Nel frattempo poi sono cresciuto, sono diventato anche papà e ho cominciato questa nuova esperienza dei laboratori rap nelle scuole, una delle cose più forti che ho adesso. Sicuramente nell’ultimo periodo le tre canzoni che mi rappresentano sono Il lago che combatte, Simonetta e Roma Meticcia. Magari tre canzoni degli anni ’90, sono Banditi, Terra di nessuno e Batti il tuo tempo.
Ci sono delle cose che non faresti tornando indietro?
Riguardando il documentario e ripensando a tante cose, sicuramente penso a tanta lacerazione che c’è stata per alcuni passaggi e alcuni momenti. Noi ci muovevamo molto per istinto, senza sapere esattamente quello che stavamo facendo, come è anche giusto che sia. Nel corso dell’occupazione del 1990, c’è stato proprio un professore di Parigi, uno studioso di antropologia, Georges La Passade, un grande studioso di hip hop e venne a Roma e ci spiegava quello che facevamo; a noi un po’ dava fastidio perché ci studiava, un po’ ci faceva piacere e ripensandoci ci diceva un sacco di cose interessanti. Ci parlava dell’incontro tra istituente e istituito. Ci diceva che noi siamo l’istituente, la forza dal basso creativa e autentica che si scontra con la forza dall’alto, con lo status quo, con il potere e l’incontro tra queste due forze crea la società, e tanto più è forte l’istituente, da sotto, tanto pi la società è libera. Al contrario, tanto più l’istituente è omologato e soffocato, allora lo sarà anche la società. Uno fa tante cose, tra tante scelte che ho fatto, ripensandoci, qualcosa potevo farla in un’altra maniera, però in realtà è stato meglio così, non avere la testa che ho adesso. È stata proprio quell’irruenza e innocenza che ci hanno permesso anche di fare cose che altrimenti non avrei mai fatto. Io non ero sicuro di quello che stavo facendo, però mi sono detto:”Io la voglio fare questa cosa”. Infatti quel professore mi diceva che andavo come in trans quando rappavo. Che cosa non rifarei non lo so, alla fine sono felice di quello che ho fatto, in tutti i momenti, è stato bello ed è bello ancora.
La vostra musica si concentra sempre sul raccontare i sociale e la realtà in maniera critica e polemica. Volevo chiederti, secondo te questo tipo di rap oggi c’è ancora davvero o magari non interessa più?
Io ho iniziato a farlo perché sono nato in un contesto che mi ha portato a pensare che potessi difendermi dalla violenza della società e che potessi trasformare questa società con l’arte. Ho vissuto negli anni ’80 questa cosa e ho sempre pensato che fosse la mia stella polare, sono a mio agio così. Nell’ultimo anno il territorio di Gaza è stato sotto bombardamento e io finché non ho scritto una canzone per Gaza non mi sentivo bene con me stesso, è proprio un’esigenza fisica, sennò sentivo che non potevo parlare di nient’altro. Dovevo fare quella cosa. Quindi io lo faccio per me, perché sento che il mio ruolo nella società è quello di dire una determinata cosa. Poi mi auguro di dare coraggio ad altre persone, di prendere posizione e di cercare di spingersi a capire e a sapere e quindi di provare a cambiare le cose. Perché non c’è più questa cosa? Intanto non è facile farlo. Tante parole si sono consumate e non hanno più la stessa forza che avevano prima, forse anche perché sono state tradite. Io lo capisco anche che magari qualcuno lo vorrebbe pure fare ma pensa di non farlo perché escono cose banali. Oppure queste che alla coscienza collettiva non interessa. Io l’ho visto in questi anni: ultimamente si è iniziato a pensare che questo mondo possibile non fosse più possibile. Si è iniziato a non sperare più nel futuro. Poi c’è stato anche il covid che ha accentuato ancora di più queste cose. Anche i social da un lato ci hanno messo in contatto con gli altri, ma dall’altro ci hanno isolato. Tutto questo si riproduce tantissimo nella musica. Tanti artisti la pensano come me su tanti argomenti magari, e in privato lo dicono anche, però non lo trasformano in un’opera d’arte, in una canzone. Forse pensano che non renda o non sia utile. Non so se hanno ragione, io ho sempre sentito l’esigenza di farlo comunque, per me è un’esigenza personale e quindi lo faccio.
Mi è capitato di vedere artisti, anche fuori dalla musica come dei registi, che si espongono riguardo determinati temi, poi alla fine questo non si riversa nella loro arte, che non ha molto collegamento con la realtà. Magari un regista sui social si fa vedere particolarmente attento su determinati temi, però poi il suo nuovo film non ha contatto con determinati temi. Tu come vedi questa cosa?
Sì, è come se l’arte fosse staccata dalla realtà in cui si vive. Secondo me è bello quello che nel documentario dicono Elio Germano e Caparezza. Dicono che alla fine la cosa bella dell’essere artista è quella di restituire al territorio quello che si vive e si sente. Questo però non avviene ed è un peccato. Nel corso dei secoli, grandi scrittori hanno parlato della loro storia. Molti magari hanno paura che dicendo una determinata cosa vengono emarginati o non abbastanza apprezzati; così non sono veramente indipendenti e quindi non sono veramente liberi. È un peccato perché poi se le cose che restano, anche tra cento anni, quando si vedrà come sono stati raccontati il nostro tempo e la nostra società, non saranno state raccontate, sarebbe davvero una grossa mancanza.
Chi tra cento anni andrà a studiare i nostri tempi magari andrà a cercare nella penna di uno scrittore o nei film di un regista la narrazione dei fatti. Pensi che si arriverà a non avere più narratori? Almeno per quanto riguarda l’arte. Nonostante il rap ad esempio si nutra di fatti di attualità, per come la vedo io.
Nel rap effettivamente è così. Ultimamente c’è stato questo dissing tra Drake e Kendrick in cui però abbiamo assistito a una cosa tutta interna al mainstream; non è che parlano della realtà. È una grande occasione di comunicazione, però non ci vedo veramente il coraggio di raccontare quello che succede nel nostro tempo. Poi i nostri artisti prendono spunto da loro e va così.
Negli anni ’90 voi iniziate a rappare perché vedete una mancanza nella musica e nell’arte?
Una mancanza di linguaggio anche nella politica. Comunque venivamo dagli anni ’70 e la politica era stanca. Quindi io cercavo nuove forme di comunicazione. Mi sono innamorato dell’hip hop per il ritmo e per la storia sociale che c’era dietro. Ho anche viaggiato e ho visto cosa volevano dire il rap e la sua forza. Quindi quando sono tornato a Roma anche il fatto di essere immerso nell’ambiente dei movimenti studenteschi e dei centri sociali mi ha dato quella capacità critica per cui ho pensato che non mi bastava portare il rap così com’era e dovevo assolutamente capire come farlo interagire con le persone che mi stavano attorno. Quando vedevo queste persone distrarsi all’inizio perché il testo era in inglese e non lo capivano, ho capito che dovevo fare il rap in italiano. Così ho cominciato a farlo in radio, sforzandomi anche. A volte mi vergognavo all’inizio. Prima in Italia si prendeva il rap come un dogma, per cui era in inglese e andava fatto solo in inglese ma era sbagliata questa cosa. In America lo facevano così solo perché era la loro lingua.
Editing: Margherita Fratantonio