Approfondimento

‘Porno’, una panoramica cinefila dentro l’hard-core

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Dal concorso al Festival di Venezia, e ora al cinema dal 6 Febbraio, Diva futura (2024) di Giulia Louise Steigerwalt, è un “biopic” su Riccardo Schicchi (1953-2012) e la sua rinomata casa di produzione e di casting. Niente di hard in questo excursus nel – sudicio – mondo parallelo del cinema mainstream, ma un approccio da commedia,  come nel serial Supersex. Il porno, per anni visto con ribrezzo, come grado zero del cinema, pare che in Italia lo si voglia redimere, e mostrare che in fin dei conti c’è del salvabile. È fatto da persone con anima. All’estero era già stato affrancato, anche tramite l’uso di scene di sesso non simulato. Ma partiamo dal biopic seriale incentrato su Rocco.

Supersex, serial in sette puntate che ripercorre, con qualche svolazzo poetico, la carriera di Rocco Siffredi, dal 1984 al 2004, ha rimesso al centro del mainstream il porno, l’hard-core. Ossia la categoria cinematografica da sempre ritenuta indecorosa, e spesso genere definito postribolare, che non ha nulla di artistico, e sin dalle origini è andato in parallelo con il cinema normale.

L’Hard-core, esploso con il fenomeno de La vera gola profonda (Deep Throat, 1972) di Gerard Damiano e la seguente Golden Age (1972-1984), esiste sin dalle origini del cinematografo. Il meccanismo tecnico-artistico proposto dai Fratelli Lumiere che permetteva di riprendere e registrare il movimento, era perfetto per immortalare le scene di sesso, che sono azioni.

Rudimentali porno di pochi minuti che venivano proiettati principalmente presso le case chiuse, per sollazzare i clienti voyeur in attesa o per stuzzicare le fantasie più recondite. A tal proposito, si può recuperare l’episodico found footage Scandalosi vecchi tempi (Polissons et galipettes, 2002) di Michel Reilhac, che assembla oltre 300 filmati porno realizzati tra il 1905 e il 1930.

Persino il sommo Vate Gabriele D’Annunzio, satiro di prima grandezza, pare abbia collaborato – finanche come attore attivo – a un porno. Il reperto osé sarebbe La vendetta di Priapo (1922) di Gabriellino D’Annunzio.

Il porno arcaico e dilettantistico è esistito soltanto clandestinamente, con l’ex URSS tra i maggiori fruitori. Usualmente le attrici erano vere prostitute, che in fin dei conti non dovevano recitare perché sostanzialmente svolgevano il proprio mestiere, con l’unica differenza che sarebbero rimaste “immortali”. Altrimenti, persone sconosciute che lo facevano per soddisfare le proprie libidini.

Però in questi loop porno illegali ci sono anche giovanissime future star di Hollywood. Ad esempio, la famigerata clip con una ventenne Marylin Monroe, a quel tempo ancora Norma Jean, oppure quella con Barbra Streisand.

Anche registi stimati, agli esordi oppure in un momento di secca economica, hanno girato degli hard-core. Abel Ferrara ha debuttato con il lungometraggio episodico 9 Lives of a Wet Pussy (1976), realizzato sotto pseudonimo (Jimmy Boy L.). Sceneggiato dal fidato Nicholas St. Jones, il film già contiene i temi del peccato e della redenzione. In uno degli episodi Ferrara è anche attore. E, sebbene non ancora completamente appurato, forse ha avuto anche un ruolo attivo.

Wes Craven, maestro del new horror, parimenti ha girato – per motivi alimentari – un Hard-core, tra l’altro apprezzato: La cugina del prete (The Fireworks Woman, 1975), sotto lo pseudonimo di Abe Snake.

E in ambito italiano, è da menzionare Giuliana Gamba che iniziò la carriera registica con il genere porno sotto l’egida di Joe D’Amato. I suoi hard, d’indole femminista e, per quel tempo stravaganti (pioggia dorata, rapporti omosex), sono attualmente difficili da recuperare.

A questi sopracitati nomi, si possono aggiungere anche quegli attori che hanno poi tentato una carriera mainstream nel cinema o in televisione con differenti risultati. Traci Lords, che fece porno quando ancora era minorenne, Sasha Grey, o gli italici Moana Pozzi, Rocco Siffredi, Selen ed Eva Henger.

Di converso, l’Hard-core per qualche attrice è stato l’ultimo infame gradino della propria carriera artistica. Genere accettato soltanto per racimolare rapidamente soldi e risolvere problemi personali, spesso legati alla dipendenza dalla droga. Le stupende Paola Senatore e Lilli Carati (1956-2014) sono i più fulgidi esempi di questa degradazione. La seconda ha raccontato il suo inferno nel documentario Lilli Carati, una vita da eroina (1994) di Rony Daopoulos.

[…] lavoriamo intorno al buco del culo, con tutto quello che ne esce fuori o quello che ne va dentro […]

Joe D’Amato in Joe D’Amato Totally Uncut

 

Rocco samaga hukapan kariyana turu

Dicon che faccio film penosi

perché lavoro col pene.

(Elio e le storie tese, John Holmes)

In Elio samaga hukapan kariyana turu (1989), album d’esordio del simpatico complessino milanese, la prima canzone è John Holmes. Un ironico brano, con svariate licenze poetiche, dedicato al mitico pornoattore morto di aids l’anno precedente. John Holmes (1944-1988), con i suoi notori 33 cm, è a tutt’oggi un’icona dell’Hard mondiale.

«John Holmes was to the adult film industry what Elvis Presley was to rock ‘n’ roll. He simply was The King.»

(Bob Vosse)

Per raccattare gli ultimi soldi prima di morire, e ben consapevole del suo terminale stato di salute (ma all’insaputa delle attrici, tra cui Cicciolina), girò due strani porno italiani: Supermaschio per mogli vogliose (1987) di Giorgio Grand e Carne bollente (1987) di Riccardo Schicchi.

Il legame tra Rocco Siffredi ed Elio e le storie tese è consolidato. La più nota collaborazione  – mainstream – è la divertita esibizione a Sanremo del 2013, con Rocco che ha maliziosamente cantato, accompagnato dagli EELST, Un bacio piccolissimo di Robertino e Bobby Rydell (presentata a Sanremo nel 1964, proprio l’anno di nascita di Rocco) in omaggio alla sua amata moglie Rosa Caracciolo (conosciuta a inizio degli anni ’90 nel porno).

Ma questo sodalizio inizia – sporadicamente – nel 1996, quando Elio e le storie tese, freschi vincitori morali di Sanremo, sono in tour. Da un lato hanno l’onore di avere come apri-concerto il maxi gruppo Toto, dall’altro la partecipazione, durante l’esecuzione di John Holmes, di Rocco Siffredi accompagnato da Roberto Malone, Christopher Clark e alcune giovani pornostar.

Armato di videocamera, mentre il complessino suona (play), Siffredi “gioca” (play) sul palco a filmare le attrici e gli attori che recitano (play) lascivamente posture hard.

“Per favore, non ci far andare in galera”

Elio durante il concerto a Torino mentre Rocco filma e con le mani tocca le parti prorompenti di un’attrice

Questo happening, visibile anche su YouTube, è uno degli spezzoni che rallegrano il già superfrizzante Rocco e le storie tese (1997), porno diretto dallo stesso Siffredi, nel quale gli EELST (ad esclusione di Feiez) appaiono come comparse-spettatori, mentre Siffredi e il restante cast fanno del gioioso e liberatorio amore (in tutte le posture).

Tornando a quel 1989, Rocco Siffredi era uno sconosciuto. Soltanto un venticinquenne ben messo al posto giusto e di bell’aspetto. Un solerte operaio dell’industria porno italiana, rimasta povera dopo dieci anni  e con le attrici come unico “valore” dei film. Come film siffrediano di “spicco” di quel periodo, si può citare il romanzato porno soft Ecstasy (1989) di Luca Ronchi, con Moana Pozzi.

I primi riconoscimenti per questo alacre manovale “Made in Italy” giungeranno un paio d’anni dopo, e da quel momento Rocco Siffredi diventa un divo riconosciuto, apprezzato e ben retribuito, al pari delle più note pornostar femminili.

E nella sua ormai quarantennale carriera, in parte vista e romanzata in Supersex, Rocco Siffredi è stato l’unico pornoattore a imporsi anche nel mainstream. Senza rinnegare ipocritamente il suo passato, anzi facendo leva sui contributi che ha dato e sull’attributo che lo contraddistingue.

La già citata partecipazione a Sanremo, le pubblicità maliziose delle patatine Amicachips e della compagnia assicurativa Segugio.it, la partecipazione al programma Rai Milano-Roma insieme a Luciana LittizzettoL’isola dei famosi 10.

E in queste partecipazioni televisive generaliste, che gli hanno dato visibilità e riconoscibilità presso un pubblico non avvezzo al porno, rendendolo simpatico persino alle casalinghe, ci sono anche alcune interpretazioni cinematografiche.

Ha esordito nel cinema normale con Romance (1998) di Catherine Breillat, pellicola con scene hard attuate dall’attrice non porno Caroline Ducey. Film incentrato sulla totale liberazione sessuale di una giovane donna. Siffredi interpreta un gigolò abbordato dalla protagonista.

Con la Breillat farà anche Pornocrazia (Anatomie de l’enfer, 2004), in un ruolo più drammatico, e Amorestremo (2001) di Maria Martinelli. Ci sono poi piccole – e maliziose – partecipazioni nelle commedie Matrimonio a Parigi (2011) di Claudio Risi e Natale a 5 stelle (2018) di Marco Risi, e nel thriller Tutti i rumori del mare (2012) di Federico Brugia.

Supersex. (L to R) Alessandro Borghi as Rocco in episode 104 of Supersex. Cr. Lucia Iuorio/Netflix © 2024

Il cinema osserva e giudica il cinema

Il cinema, sin quasi dal principio, ha puntato l’obiettivo dentro di sé. Uno sguardo rivolto a se stesso sia per mostrare agli spettatori il dietro le quinte, e sia per riflettere e giudicare la macchina cinema. Disamine sovente allegre, ma anche amare o tragiche.

Alla gioia – sebbene con infinite difficoltà quotidiane che possono accadere su un set – esternata da François Truffaut con Effetto notte (La nuit américaine, 1973), fa da contraltare la nevrotica produzione inscenata in Attenzione alla puttana santa (Warnung vor einer heiligen Nutte, 1971) di Rainer Werner Fassbinder. A cui si potrebbe aggiungere, come postilla, Si gira a Manhattan (Living in Oblivion, 1994) di Tom DiCillo, che ugualmente mostra contentezze e patemi nel realizzare un film.

E a queste pellicole incentrate sul caos del set si aggiungono quelli sulle problematiche creative di un autore con l’industria cinematografica: 8 ½ (1963) di Federico FelliniStardust Memories (1980) di e con Woody AllenIl ladro di orchidee (Adaptation, 2002) di Spike JonzeRifkin’s Festival (2020) di Woody Allen e via discorrendo.

A cui si aggiungono tutti quei film sulla meschina, ipocrita, opulenta e violenta Hollywood Babilonia. Da A che prezzo Hollywood? (What Price Hollyood?, 1932) di George Cukor fino a Babylon (2022). Passando per Il bruto e la bella (The Bad and the Beautiful, 1952) di Vincent Minnelli, È nata una stella (A Star Is Born, 1954) di George Cukor,  Gli ultimi fuochi (The Last Tycoon, 1976) di Elia Kazan, fino ai cinefili The Artist (2011) di Michel Hazanavicius e C’era una volta Hollywood (Once Upon a Time… in Hollywood, 2019) di Quentin Tarantino.

E in questo folto “sottogenere” definibile “cinema nel cinema”, si è anche inserita una specifica tematica, ovvero le difficoltà di girare le scene di sesso. Sebbene simulate, devono avere più realismo possibile. E nel cercare di farle sembrare veritiere si corre il rischio che il finto atto sessuale valichi la finzione e accada realmente.

Noto è il caso di Maria Schneider in Ultimo tango a Parigi (1972) di Bernardo Bertolucci. Nella famigerata scena del burro, sebbene non ci sia stata penetrazione, l’attrice si è sentita violentata, perché la scena, per sua dichiarazione, non fu concordata precedentemente.

In Occhi di serpente (Snake Eyes, 1993) di Abel Ferrara, il regista Eddie Israel (Harvey Keitel) chiede all’attore Francis Burn (James Russo) di essere il più convincente possibile in una scena di sesso con l’attrice Sarah Jennings (Madonna). Una prova attoriale che termina con un coito vero,  con l’attrice che sente di essere stata abusata.

Mentre Catherine Breillat in Sex Is Comedy (2002), attraverso l’alter ego Jeanne (Anne Parillaud), ricostruisce la tribolazione patita in A mia sorella! (À ma sœur!, 2001). Ovvero, la scena in cui Libero Di Rienzo deve possedere Roxane Mesquida. L’attore italiano, rifiutandosi di mostrare una vera erezione, ha svolto l’atto sessuale con l’ausilio di un pene di gomma. Tra l’altro, artifizio posticcio usato sovente nel cinema di Tinto Brass, per supplire alle défaillance degli attori, e per non aderire completamente al genere hard.

Queste scene di sesso simulato, in ogni modo, sono sempre delicate. E dopo differenti casi in cui le attrici hanno esposto denuncia per gli abusi subiti (si veda appunto il succitato caso della Schneider), sui set ci si è avvalsi di una Intimacy Coordinator. È una psicologa/trainer che prepara le attrici e gli attori. Per comprendere le mansioni di questa figura professionale, si può vedere il corto Punti ciechi (Blinde Flecken, 2021) di Luis Schubert.

Il cinema osserva e giudica il cinema porno

Puntare l’obiettivo della cinepresa dietro le quinte dell’industria cinematografica, inevitabilmente si è spinto anche negli anfratti dell’industria porno. Uno scrutare spesso “bacchettone”, nel quale si mette in evidenza lo squallore – finanche morale – che ruota intorno alla realizzazione di un Hard-Core.

Produttori senza scrupoli, abusi, droga e morti. Il serial Supersex, ultimo prodotto in ordine di tempo che mostra cosa accade sui set a luci rosse, ne è un esempio. Come lo fu la miniserie biografica Moana (2009) di Alfredo Payretti, che raccontava la vita, artistica e privata, di Moana Pozzi (1961-1994).

Versioni, però, televisive e quindi con un approccio narrativo romanzato. E con lo svantaggio di non poter mostrare troppa epidermide e né dettagliatamente gli atti sessuali, questi ultimi elementi carnali che supportano e differenziano l’Hard-Core dal cinema mainstream.

Per tracciare una guida su quei film che, al netto delle loro qualità artistiche , hanno saputo dare una visione del porno, ecco una lista di pellicole da vedere.

Il pornografo (Inserts, 1974)

Scritto e diretto da John Byrum, si può considerare come il primo film mainstream che ha affrontato l’indecente industria del porno. Tra commedia e dramma, è una pellicola ambientata negli anni ’30 e osserva cinicamente non soltanto l’industria del porno, ancora agli albori e totalmente clandestina, ma tutto il sottobosco di Hollywood.

Nel pieno della fervente New Hollywood e di poco antecedente a Il giorno della locusta (The Day of Locust, 1975) di John Schlesinger e a Gli ultimi fuochi, Il pornografo, nel suo mostrare l’immoralità che soggiace nell’industria del cinema degli anni Trenta, pare trarre spunto dal “goliardico” saggio Hollywood Babilonia (Hollywood Babylone, 1959) di Kenneth Anger, nel quale sono riportati alcuni degli scandali – sessuali e/o di dipendenza a droghe o alcool – che si svolgevano dentro e dietro la mecca del cinema.

Il comune senso del pudore (1976)

La società italiana post Sessantotto è invasa dalla pornografia. Le sale cinematografiche, finanche quelle di prima visione, proiettano film sconci. Commediacce erotiche o pellicole pseudo artistiche piene di nudi. Nelle edicole c’è abbondanza di riviste porno e gli editori e/o produttori, non si fanno scrupoli nel proporre tutto ciò.

Il comune senso del pudore, film di quattro episodi diretto da Alberto Sordi, vuol essere una panoramica ironica su questa deriva pornografica. Ma più che un mettere alla berlina la società italiana, la pellicola è l’ennesimo strumento critico del moralista Sordi per fustigare la degenerazione della medesima. Tutto resta in superficie e le stoccate fendenti sono poche.

Nel primo episodio il protagonista è Giacinto Colonna (Sordi), che assieme a sua moglie Erminia vuole andare al cinema per vedere un bel film. Visitano diverse sale sparse per Roma, ma ormai prevalgono soltanto film “zozzi”. Con titoli che fanno sperare in una storia d’amore e invece sono osé.

Il quarto episodio è quello che mostra come questo decadimento è anche causa dei produttori e di registi che si credono di fare dell’arte.

Su un fintissimo set in cui si sta girando una versione de L’amante di Lady Chatterley, sorge il problema che l’attrice tedesca (Dagmar Lassander) non vuole girare una scena di sodomia. Il regista (Renzo Marignano) con la erre moscia è stizzito, mentre l’incazzato produttore Giuseppe Costanzo (Philippe Noiret), con un magheggio, convincerà l’attrice.

La stilettata in questo caso è chiara. Si fa riferimento alla famigerata scena del burro di Ultimo tango a Parigi, con il regista intellettuale vestito con charme come Bernardo Bertolucci, mentre il produttore napoletano è una parodia di Dino De Laurentiis. Produttore che fece anni prima un contratto capestro (cinque anni senza poter scegliere) a Sordi, e che in quegli anni produsse film “culturali” ma sostanzialmente tendenti al pruriginoso: Mandingo (1975) di Richard Fleischer.

La pretora (1976)

Ascrivibile al genere della commediaccia erotica, questa pellicola di Lucio Fulci è in ogni modo alcune spanne sopra ai coevi film del genere. C’è una spumeggiante descrizione della provincia italiana, degli uomini in fregola e, soprattutto, una nudissima Edwige Fenech. In un doppio ruolo.

Trama che gioca sul tema del doppelgänger, con l’integerrima pretora Viola Orlando (Edwige Fenech), temuta da tutti (e bramata da molti uomini), che vede la sua rispettabile immagine compromessa con l’arrivo nella cittadina della sua gemella Rosa, disinibita e disponibile.

Tra i segreti che si celano in questa cittadina, c’è anche un piccolo studio in cui si girano dei fotoromanzi porno. In questo caso la versione hard di Biancaneve e i 7 nani. Un set raffazzonato, caotico e grossolano. L’attrice che interpreta Biancaneve altro non è che Marina Frajese, già pronta a girare scene hard e che dal 1980 fino alla fine della decade sarà una super pornostar,  collaborando anche con un giovane Rocco Siffredi.

Hardcore (1979)

Paul Schrader aveva già “trattato” il mondo del porno in Taxi Driver (1976) di Martin Scorsese. Travis Bickle (Robert De Niro) è un assiduo frequentatore di sale a luci rosse, non per spinte libidinose, ma solo per nascondersi dal mondo e passare il tempo senza dover pensare.

Un mondo – lurido – che Schrader aveva conosciuto qualche anno prima, quando era sprofondato in una forte depressione e nell’alcolismo e per passare le giornate si stordiva con la pornografia, frequentando le sale porno o leggendo riviste. Ma con Hardcore, sua seconda regia, Schrader si addentra in quell’universo.

Un viaggio d’inabissamento da parte di Jake Van Dorn (George C. Scott), imprenditore di fede calvinista, che sta cercando la figlia (Ilah Davis) misteriosamente scomparsa. Un itinerario che lo porta a conoscere – e noi con lui – le più turpi nefandezze che alimentano la pornografia, tra cui i famigerati Snuff Movies, ossia filmati in cui si commettono veri omicidi.

Action (1980)

Scottato dall’esperienza del porno (teo) kolossal Caligola (1979), mastodontica pellicola di costume sceneggiata da Gore Vidal e prodotta da Bob Guccione (editore di Penthouse), Tinto Brass, esautorato dal montaggio, esprime la sua rabbia di cineasta tramite Action.

È una pellicola che si riallaccia al suo primo periodo, quello legato alla Nouvelle Vague. “Cinema nel cinema” nel quale il protagonista Bruno Martel (Luc Merenda), uno pseudo Jean-Paul Belmondo di poliziotteschi, stufo del mondo del cinema che lo utilizza solo come oggetto, fugge alla ricerca di una propria libertà.

Ma non essendo un divo e dovendo fare i conti con la realtà economica, il suo agente (John Steiner) lo convince a prender parte a un film porno.  Si ritrova sul set di uno scalcinato porno intitolato L’albero delle zoccole, nel quale la scena clou, voluta fortemente dal produttore (Franco Fabrizi) è quella in cui Ofelia (Susanna Javicoli) deve defecare in una lercia latrina.

Action è certamente uno dei migliori film di Brass, prima che (s)cadesse nel porno soft ginecologico ed è curioso come l’impertinente sbeffeggiamento a L’albero degli zoccoli (1978) di Ermanno Olmi nel 1995 sia diventato realmente un film diretto da Leo Salemi. Addirittura interpretato, con tanto di scena hard, da Luigi Ornaghi, già protagonista del film di Olmi.

 

Omicidio a luci rosse (Body Double, 1984)

Il titolo originale rende più chiaro il significato del film: Body Double, ovvero controfigura. Titolo che si riallaccia volutamente all’incipit erotico di Vestito per uccidere (Dressed to Kill, 1980) dello stesso Brian De Palma.

La lasciva doccia di Angie Dickinson è stata realizzata con l’ausilio di una controfigura, e l’artificio per far combaciare il viso estasiato della Dickinson con il sinuoso corpo di una modella è spiegato giustappunto nel cinefilo e beffardo finale di Body Double.

Omicidio a luci rosse è un thriller la cui trama unisce La finestra sul cortile (Rear Window, 1954) con La donna che visse due volte (Vertigo, 1958) di Alfred Hitchcock. E tra questi due capolavori De Palma inserisce anche la sua passione per il cinema di Serie B/C/Z, già affrontato, con ugual ironia, in Blow Out (1981).

E questi due generi qualitativamente agli antipodi, si aggiunge il porno, che è un altro topos depalmiano. Fu affrontato, con toni da commedia, in Ciao America! (Greetings, 1968), Hi, Mom! (1970) e Home Movies – Vizietti familiari (Home Movies, 1979).

In questo caso c’è una breve e divertita ricognizione sul set di un porno. L’attorucolo Jack Scully (Craig Wesson), nelle sue personali indagini per scoprire l’assassino della sua avvenente vicina di casa (Deborah Shelton), deve recita con la pornostar Holly Body (Melanie Griffith), già protagonista del fittizio cult Holly si fa Hollywood. Questo titolo è la parodia del fortunato franchise hard Debbie Does… avente protagonista Bambi Woods.

Per impersonare Holly inizialmente De Palma voleva la vera pornostar Annette Heaven (protagonista del cult Barbara Broadcast di Radley Metzger), ma la bravura di Melanie Griffith nel muoversi sinuosamente come una consumata attrice hard lo convinsero a scegliere lei. Anche perché la Griffith aveva impersonato un ruolo simile, ossia una spogliarellista, in Paura su Manhattan (Fear City, 1984) di Abel Ferrara.

Amami (1992)

Molto prima del serial Moana, ecco la pseudo autobiografia cinematografica su Moana Pozzi. Amami è una commedia con finale alla “volemose bene” nel quale un anziano padre (Novello Novelli, toscano doc) scopre che tipo di film fa la giovane e procace figlia Anna (Moana Pozzi, ligure ma ormai trapiantata a Roma). Capitato per caso sul set porno (una versione di Biancaneve e i 7 nani) nel quale la figlia è protagonista indiscussa, sarà scambiato per un attore porno.

L’anziano padre ne soffre, anche perché scopre che tutto il paese sapeva da tempo che mestiere faceva la figlia. Un dolore – e un’onta – che si sanerà con la comprensione di lui che comunque sua figlia è sempre la stessa brava ragazza, con un film nel film incentrato su queste loro schermaglie in funzione catartica.

Scritto da Bruno Colella e Giovanni Veronesi, per la regia dello stesso Colella, doveva essere il film che avrebbe sdoganato Moana nel cinema mainstream come protagonista. Una storia che dietro la patina della commedia voleva mostrare come una pornostar è umana, ha dei sentimenti e non è una prostituta.

Anni 90 – Parte II (1993)

Sequel di Anni 90 (1992), sempre diretto da Enrico Oldoini. Un dittico episodico che mostra i mostri che popolano l’Italia degli anni ’90, recuperando quel gusto per il tratteggio grottesco de I mostri (1963) di Dino Risi. Rispetto alla pellicola di Risi, però, questi ritrattini di Oldoini oltre a essere spiccatamente volgari (sebbene rispecchino bene la Nazione di quel decennio), non sanno essere cattivi e incisivi.

Tra i diversi episodi che compongono questo sequel – tra l’altro migliore del primo – c’è anche uno ambientato su un set porno. Lo sketch Don Buro, avente protagonista Christian De Sica (che recupera il prete burino con i capelli ingrifati presente in Vacanze in America di Carlo Vanzina), è incentrato su un coriaceo parroco ciociaro di paese che pur di salvare Lola Ciccone (Anna Falchi), pecorella smarrita divenuta attrice porno, accetta di addentrarsi nel mondo hard.

Il suo itinerario investigativo, non dissimile da quello di Jake Van Dorn in Hardcore, inizia dai sexy shop (scoprendo tutti i gadget sollazzanti) e termina sul set nel quale Lola è protagonista. Pur di riportarla sulla retta via, accetta di prendere parte al film, anche perché il regista (Andrea Roncato) ha visto che Rodolfo Buro ha superdotato.

Questo episodio è appunto uno sketch che non aggiunge nessuna osservazione critica all’industria del porno. Interessante è prendere spunto dalla vita di Moana Pozzi, anche lei brava ragazza di paese che, giunta nella grande città, pur di diventare una diva si dedica all’hard.

Boogie Nights – L’altra Hollywood (Boogie Nights, 1997)

Uno dei migliori sguardi sull’altra Hollywood, ossia l’industria del porno americano. Paul Thomas Anderson, anche sceneggiatore, opera una precisa ricognizione e ricostruzione cinefila e umana, ma non bacchettona e, anzi, a tratti perfino nostalgica, di ascesa e caduta del protagonista del porno, che mostra tanto le nefandezze quanto le debolezze dei personaggi protagonisti.

Boogie Nights, con uno approccio narrativo tra Robert Altman e Martin Scorsese, prende spunto dalla vita artistica e privata di John Holmes, ma anche da altre storie di figure che hanno alimentato quell’industria. Il protagonista Dirk Diggler (Mark Wahlberg) è il giovane provinciale bello e aitante che ha in dote un organo di tutto rispetto (33 cm), che lo fa diventare rapidamente un divo.

Sconvolge sessualmente e sentimentalmente la matura e fragile Amber Waves (Julianne Moore) e anche la giovane e folle Rollergirl (Heather Graham). Di converso, Diggler è considerato soltanto un oggetto, una gallina dalle uova d’ora, da produttori (Robert Ridgely) e registi (Burt Reynolds).

Una parabola, quella di Diggler, di ascesa e caduta (droga e storie di malaffare), che corre in parallelo con la Golden Age del porno. Infatti la storia termina nel 1984, considerato l’anno tombale dell’epoca d’oro dell’Hard-core, con l’arrivo del mercato delle VHS.

John Holmes sarà poi al centro di Wonderland (2003) di James Cox. L’iconico pornodivo è interpretato da Val Kilmer e il film, sceneggiato dallo stesso regista e da Captain Mauzner, tratta degli omicidi di Wonderland Avenue (1º luglio 1981) che videro implicato anche Holmes. In ogni modo, non c’è una vera e propria disamina sull’hard.

Sex: The Annabel Chong Story (1999)

Annabel Chong è un’ex pornostar divenuta nota nel 1995 per aver organizzato una maxi Gang Bang. Appena ventenne, si lanciò nella sfida vittoriosa di fare sesso con 251 uomini nell’arco di 10 ore. La Gang Bang venne immortalata nel video The World’s Biggest Gang Bang di John T. Bone.

Il documentario di Gough Lewis, presentato al Sundance Film Festival, parte da quell’evento straordinario per tratteggiare un ritratto della pornostar singaporiana. Tra vita privata e lavoro sul set, si cerca di mostrare una pornostar cosciente di quello che sta facendo. Il documentario contiene anche interviste a personalità del mondo porno americano.

Guardami (1999)

Prendendo liberamente spunto dalla vita di Moana (in particolare la malattia) il primo sguardo italiano sul mondo del porno con delle ambizioni. Davide Ferrario, prima di realizzarlo, aveva svolto una seriosa ricerca, intervistando personalità del settore, presenziando su qualche set, partecipando a festival ed eventi. Un proficuo iter investigativo tutto documentato nel libro Guardami – Storie dal porno, con testi diaristici dello stesso Ferrario e fotografie di Attilio Concari.

Anche in questo caso una perlustrazione nel vituperato settore del porno che cerca di essere oggettiva, senza atteggiamenti moralistici. La protagonista Nina (Elisabetta Cavallotti) è conscia del mestiere che fa. È una ragazza completamente libera, e attraverso di lei vediamo questo universo tutto sommato gioviale, nel quale si scherza, ci si vuole bene e, se ci sono dei problemi (personali e/o tecnici), si cerca di risolverli con tranquillità.

Presentato alla 56ª edizione del Festival di Venezia, nella sezione parallela Sogni e visioni, Guardami era un’opera molto attesa, ma gran parte della critica la massacrò, perché rilevava in essa una commistione di dramma e porno non ben amalgamata. Tra cui il parallelismo tra l’infame porno e le nefande macerie post-guerra in Bosnia.

In questo “disastro” filmico si salva solo Elisabetta Cavallotti, attrice mainstream, che si dedicò con anima e corpo anche alle scene hard. Purtroppo l’insuccesso di questo film gli precluse un prosieguo di carriera migliore. Nel film doveva comparire anche Joe D’Amato (1936-1999) nei panni di se stesso, ma con la sua morte improvvisa fu sostituito dal regista Antonello Grimaldi, un poco somigliante.

8mm – Delitto a luci rosse (8mm, 1999)

Gli Snuff Movies esistono realmente? È uno di quelle leggende metropolitane a cui ancora non è stata data una risposta certa. Ad esempio, in Emanuelle in America (1976) di Joe D’Amato la libertina fotoreporter Emanuelle (Laura Gemser) assiste alla proiezione privata di uno Snuff Movie, nel quale si vede una donna che viene torturata (viene marchiata a fuoco, gli vengono amputati i seni).

Un lacerto filmico che fu scambiato per un vero Snuff, ma altro non era che un mirabile lavoro di D’Amato (il lavorio di sporcamento della pellicola) e di Giannetto De Rossi (il make-up gore). Finti e “subliminali” Snuff che comparivano anche in Videodrome (1983) di David Cronenberg e affascinavano Max Renn (James Woods), proprietario di un piccolo network via cavo che trasmette usualmente pornografia.

8mm di Joel Schumacher, il cui titolo fa riferimento al tipo di pellicola dilettantistica utilizzata per girare questi prodotti clandestini, è nella traiettoria narrativa un viaggio nell’abisso della produzione pornografica simile a Hardcore.

Il protagonista è Tom Welles (Nicholas Cage), un investigatore privato incaricato da una vedova (Myra Carter) di scoprire la provenienza di uno Snuff di 8mm rinvenuto tra la memorabilia del defunto marito. Welles è felicemente sposato ed è diventato appena padre, ma questo viaggio dentro il torbido lo porterà a scoprire aspetti di se stesso che non conosceva. La pellicola è un valido thriller, ma l’approccio all’industria porno è al contempo “morboso” (suscita la curiosità di vedere il proibito che non viene però mostrato) e moralista.

Rated X – La vera storia dei re del porno americano (Rated X, 2000)

Tratto da una biografia scritta da David McCumber, è un biopic realizzato per la Tv via cavo e  incentrato sui fratelli Jim (1943-2007) & Artie Mitchell (1945-1991), tra i più noti registi della Golden Age del porno. Il loro cult è Dietro la porta verde (Behind the Green Door, 1972), interpretato da Marilyn Chambers (1952-2009), pornodiva che sarà protagonista di Rabid – Sete di sangue (Rabid, 1977) di David Cronenberg.

Rated X è diretto da Emilio Estevez e interpretato dai veri fratelli Estevez e Charlie Sheen, abbastanza somiglianti ai Mitchell. Come Boogie Nights, il film è un ulteriore tentativo di scandagliare l’industria del porno tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta. E la parabola discendente dei due fratelli, con Jim che uccide con un colpo di fucile Artie, rimarca la decadenza di quel mondo.

Rispetto al film di Paul Thomas Anderson, questa pellicola ha un approccio alla materia hard che resta superficiale. Non tanto per l’aspetto “casto” (esiste una versione più spinta), ma per il fatto che non aggiunge nulla di nuovo di quanto già visto in Boogie Nights.

Le pornographe (Il pornografo) (Le pornographe, 2001)

L’industria del porno del nuovo millennio è differente rispetto a quello del passato. Non soltanto il passaggio dalla pellicola al digitale ha reso ancor più commerciale e consumabile il prodotto qualità, ma l’hardcore non ha più – minimi – vezzi autoriali. Le scene di sesso sono soltanto meccanici incontri tra attori utili per far godere i fruitori della pornografia.

Questa è la riflessione alla base del film di Bertrand Bonello, anche sceneggiatore. Tramite la figura dell’anziano regista Jacques Laurent (Jean-Pierre Léaud), in passato autore di pellicole porno artistiche, osserva impietosamente un’industria ormai votata alla più bieca mercificazione.

La scelta di far interpretare il vecchio regista a Léaud, icona della Nouvelle Vague, carica maggiormente di cinefilia questa colta e amara disanima. E come in Guardami, anche in Le pornographe ci sono alcune scene hard, però interpretata da veri professionisti del settore: l’attore Titof e l’attrice Ovidie.

Porno Star: The Legend of Ron Jeremy (2001)

Sulla scia del documentario incentrato su Annabel Chong, a stretto giro un altro biopic documentaristico dedicato a un mito dell’Hard-core, Ron Jeremy. Attore “basso, grasso e peloso”, quindi anti-estetico rispetto ai canoni dei pornoattori, Jeremy è una leggenda del porno. La “bruttezza” veniva supplita dalle dimensioni del pene (25 cm).

Ha preso parte a quasi 2500 film a partire dal 1979. Ha recitato anche in alcune produzioni italiane, tra cui il cult Cicciolina e Moana mondiali (1990) di Mario Bianchi, nel quale impersona Maradona.

In questo documentario realizzato da Scott J. Gill, si ripercorre la vasta carriera, pubblica e privata di Jeremy, dagli inizi fino al 2000. Con anche interviste a personalità della pornografia, tra cui Larry Flint. La parabola di Jeremy è definitivamente calata nel 2020, quando fu arrestato per diverse accuse di abusi sessuali e stupro.

 

E adesso sesso (2003)

Alla stregua di Sessomatto (1973) di Dino Risi, E adesso sesso di Carlo Vanzina è un film episodico incentrato sui vizi e i desideri sessuali degli italiani nel nuovo millennio. Un caleidoscopio comico di sei storie che affrontano differenti argomenti: dal puro amore ai voyeur, dagli amori virtuali alle foto casalinghe artistiche, fino ai filmini porno.

In pratica i personaggi sono dei nuovi mostri – e porci – che però non aggiungono nulla di interessante, se non superficialmente, allo spietato genere per antonomasia “commedia all’italiana”.

Nell’ultimo episodio, Una vita hard, la storiella è incentrata su di una comune coppia di provincia, completamente avulsa da pulsioni viziose. Adalgisa (Francesca Nunzi) diviene attrice hard solo per racimolare qualche soldo per rimpinguare l’economia familiare. Il marito Isidoro (Paolo Triestino), scoperta per caso questa doppia vita della moglie, sulle prime resta schifato e caccia la moglie di casa, ma dopo scopre che il guadagno della moglie è utile per le casse finanziare della casa. Per unire l’utile al dilettevole, anche lui diviene attore porno.

Francesca Nunzi fu una stellina – nudissima –  di due porno soft di Tinto Brass: Monella (1998) e Tra(sgre)dire (2003). Ma nell’episodio Guardoni parte II compaiono le ex pornostar Edelweiss ed Éva Henger, senza però prodursi in quelle performance che le resero celebri.

Zack & Miri – Amore a… primo sesso (Zack and Miri Make a Porno, 2008)

La commedia romantica diviene (luce) rossa. Ma soltanto in superficie e in maniera parodica. Kevin Smith, autore indipendente che ha fustigato con i suoi film, personali oppure di compromesso, la società americana, con questa pellicola fa una puntatina anche nel porno.

L’Hard-core, fatto da Zack (Seth Rogen) e Miri (Elizabeth Banks) solo per ripianare dei debiti, diviene il set perfetto per scoprire che in un duraturo rapporto d’amicizia può esserci anche qualcosa di più, ossia l’amore. Il rapporto carnale per comprendere la vera passione tra un uomo e una donna.

Ma Zack & Miri Make a Porno, che la distribuzione italiana ha tradotto con un titolo più facilone, benché sia una commedia usa e getta, è un “istant movie” sulla proliferazione dei filmini amatoriali. Il 25 maggio 2007 era nato Pornhub, sito d’origine canadese che consente il video sharing, ovvero il poter condividere non soltanto clip porno professionali, ma anche filmini hard casalinghi. I click degli utenti permettono di avere grosso guadagno.

Lovelace (2013)

Biopic incentrato su Linda Lovelace (1949-2002), la prima vera icona del cinema porno americano, protagonista del cult La vera gola profonda. Il film ricostruisce la vita di Linda Susan Boreman, dall’incontro con il primo marito Chuck Traynor fino alle lotte femministe contro la pornografia.

Una biografia, diretta da Robert Epstein e Jeffrey Friedman, che ricostruisce la tragica parabola dell’attrice americana, che fu costretta con violenza dal marito a recitare nei film pornografici. A dimostrazione che quella gioia e spensieratezza che si vede sullo schermo, era in realtà frutto di botte e minacce.

Nel film non ci sono scene harde si ricostruisce la vita della Lovelace per tappe salienti. A incarnare la sfortunata Linda una convincente Amanda Seyfried.

Rocco (2016)

Prima ancora di Supersex, ecco Rocco Siffredi al centro di un biopic. Il documentario, a firma di Thierry Demaizière e Alban Teurlai, presentato al 73º Festival di Venezia, nella sezione Giornate degli autori, scandaglia la vita privata e la vita artistica del noto pornoattore italiano.

Un ritratto che vuole raccontare la doppia vita del noto pornoattore italiano, professionale e instancabile lavoratore sul set (come attore e regista) e amorevole capo famiglia, con la sua dolce metà Rosa Caracciolo. Rózsa Tassi (1972) è un’attrice ungherese, sposata con Rocco Siffredi dal 1993, la sua carriera hard si è svolta tra il 1993 al 1997 e come unico partner lavorativo ha avuto solo il marito.

Pleasure (2021)

Per ora è l’ultimo sguardo approfondito e critico sull’industria del porno in America. E lo sguardo della regista svedese Ninja Thyberg è inclemente. Basandosi e ampliando il proprio omonimo cortometraggio realizzato nel 2013, attraverso la giovane protagonista Linnéa/Bella Cherry (Sofia Kappel), che vuole diventare a tutti i costi una diva del porno, si assiste a un lenta “discesa negli inferi”

Gironi rappresentati da richieste di performance sempre più degradanti. Con la protagonista che accetta solo per raggiungere l’obiettivo che si era prefissato: essere famosa per essere ammirata e desiderata. Pleasure, rispetto a tutte le precedenti pellicole, ha un approccio femminista nei confronti di un’industria gestita da uomini, che vedono le donne soltanto come oggetti interscambiabili.

Se un’attrice non è disposta a realizzare una determinata scena, se ne prende un’altra. Le attrici, e anche gli attori, sono materiale usa e getta. Infatti, rispetto al passato, la carriera di un’attrice si svolge intensamente nell’arco di pochi, come esemplifica bene la carriera di Sasha Grey.

E in questa industria fallocratica anche quelle donne che sono riuscite a ricoprire ruoli gestionali nel porno (produttrici, casting director, agenti di attrici), hanno messo da parte il loro orgoglio di essere donne. E invece di cancellare questa diseguaglianza e fare in modo che le donne non siano oggetti di piacere, hanno preferito abbracciare un tornaconto economico e di potere personale, che le mette sullo stesso piano degli uomini.

In Pleasure, una parabola simile a Showgirls (1995) di Paul Verhoeven, ci sono solo alcune scene hard (erezioni maschili) e Sofia Kappel non appare mai in dette scene. La regista ha voluto infatti evitare che girandole le suddette sarebbero poi state estrapolate dal contesto e utilizzate in sito porno. Non voleva che la Keppel diventasse egli stessa immagine per masturbazioni.

 

Il porno nel cinema mainstream

Sebbene ripudiato, ritenuto disdicevole, l’hard è stato sovente utilizzato nel cinema . Non come strumento di piacere, ma come necessario inserto per rendere più veritiera una scena. E questo inserimento Hard-core può essere fattore di successo o scandalo per un film, altrimenti facilmente dimenticato.

Basterebbe citare The Brown Bunny (2003) di e con Vincent Gallo, per la fellatio – a un pene posticcio – da parte di Chloë Sevigny (a quel tempo in liaison con Gallo), oppure la commedia d’esordio di François Ozon Sitcom (1998), contenente una fuggevole scena porno.

O anche i rumors che avevano circondato l’atteso Eyes Wide Shut (1999) di Stanley Kubrick, nel quale la pantagruelica ed elegante orgia a cui assiste Bill Harford (Tom Cruise) non era simulata.

Però, va anche messo in rilievo come il concetto di Hard-core con il passare degli anni è cambiato. I nudi di Hedy Lamarr in Estasi (Extase, 1933) di Gustav Machaty a quel tempo erano pornografia pura. Come parimenti il fuggevole (18 fotogrammi, ossia 0,75 secondi) seno scoperto di Clara Calamai in La cena delle beffe (1942) di Alessandro Blasetti.

E fece ugualmente scandalo – e grossi incassi – il documentario Helga (Helga – Vom Werden des menschlichen Lebens, 1967) di Erich F. Bender.

Il sesso non simulato inserito in pellicole mainstream, però, inizia negli anni ’70. Si potrebbe citare tra i primi film Pink Flamingos (1972) di John Waters, nel quale Divine (travestito e diva feticcio del primo cinema del regista di Baltimora) pratica una fellatio al figlio. Ma questa è soltanto una scena goliardica, deliberatamente sconcia (sesso omosex) che si somma a quel gusto di Waters per l’osceno.

Altrimenti si potrebbe citare Novecento atto I (1976) di Bernardo Bertolucci, in cui Stefania Casini masturba realmente Robert De Niro e Gérard Depardieu, nella scena in cui tutti e tre giacciono nel medesimo letto.

La pellicola che per prima fece uso dell’hard come fine espressivo artistico, e funzionale alla storia, fu Ecco l’impero dei sensi (Ai no corrida, 1976) di Nagisa Oshima. Basato su un fatto realmente accaduto, e alla base anche dell’erotico Abesada – l’abisso dei sensi (Jitsuroku Abe Sada, 1975) di Noboru Tanaka, Oshima utilizza l’hard per mostrare al meglio l’estrema passione che scocca tra i due protagonisti: la cameriera Sada Abe (Eiko Matsuda) e il proprietario Kichizo Ishida (Tatsuya Fuji).

Ecco l’impero dei sensi fu, in ogni modo, un “caso isolato” a cui non seguirono altri tentativi e bisognerà attendere Romance della Breillat per assistere allo sdoganato e a un uso – sapiente, o quasi – del porno nel mainstream.

In Italia, sulla scia di Guardami e del suddetto Romance, ci fu La donna lupo (1999) di Aurelio Grimaldi e con Loredana Cannata. Nel film la scena osé fu la fellatio fatta dall’attrice. Una scena non simulata simile a quella presente in Diavolo in corpo (1986) di Marco Bellocchio, nel quale Maruschka Detmers pratica la fellatio senza controfigure.

Nel medesimo scorcio di fine millennio, c’è poi il sesso non simulato secondo Lars Von Trier. In Idioti (Idioterne, 1998), secondo film che attua le regole del manifesto Dogma ’95, i dettagli hard (un’orgia o un pene in erezione in primo piano) rientrano in quell’estetica iconoclasta e libera alla base del manifesto danese.

Elementi hard, ma utilizzando il Body Double, che appariranno, in maniera più eccessiva, in Antichrist (2009), nel quale i protagonisti sono Charlotte Gainsbourg e Willem Dafoe, attori mainstream controfigurati in suddette scene hot. Le mani che masturbano il pene non sono dell’attrice francese come ugualmente l’attributo non è dell’attore americano.

E questo unire il mainstream (attori di nome) con il porno, si espanderà nel dittico Nymphomaniac (2013), un girotondo esistenziale e sessuale in cui la protagonista Joe (Charlotte Gainsbourg) soddisfa la sua ninfomania attraverso diversi incontri e pratiche erotiche.

Il porno aveva talmente intrigato Lars Von Trier, che nel 1997, sull’abbrivio di Idioti, aveva creato una costola hard alla sua casa di produzione Zentropa. La Puzzy Power, esistita soltanto una manciata d’anni e producendo solamente tre film (Constance, Pink Prison e HotMen CoolBoyz), era nata per realizzare dei film pornografici per un pubblico femminile.

La scena “clou” porno è quella nel quale Joe fa un threesome con due nerboruti uomini di colore. Vediamo la Gainsbourg in mezzo, con le erezioni e le penetrazioni dei due uomini veritiere, ma il posticcio è che il corpo è di una controfigura a cui è stato appiccicato digitalmente – e superbamente – il volto dell’attrice francese.

Film che invece doveva sdoganare integralmente l’hard nel cinema d’autore, ma che si rivelò un clamoroso flop di critica e pubblico, fu il pulp hard Baise-moi – Scopami (Baise-moi, 2000) di Virginie Despentes e Coralie Trin-Thi (ex attrice hard). Tratto dall’omonimo romanzo della Despentes, è un road movie femminista nel quale le due protagoniste Nadine (Karen Lancaume, ex pornostar) e Manu (Raffaëla Anderson, ex pornostar), pseudo Thelma & Louise, danno sfogo alle loro smanie sessuali e di rivalsa contro il mondo maschile.

La pellicola venne poi tristemente ricordata con il suicidio della Lancaume (1973-2005).

Scene pornografiche anche in Ken Park (2002) di Larry Clark, pellicola sul disagio di tre adolescenti in una piccola cittadina californiana. Sesso esplicito inizialmente meccanico (un cunnilingus di uno dei giovani alla madre di un amico) o perverso (l’asfissiofilia con masturbazione e coito finale) che diviene gioiosa e liberatoria soltanto nel finale, con i tre adolescenti che fanno un threesome tra loro.

Tripudio di momenti hard in Shortbus – Dove tutto è permesso (Shortbus, 2006) di John Cameron Mitchell, un giovanile e corale film nel quale la sperimentazione sessuale (orge, auto-fellatio, scene omosex ecc.) è l’unico modo per conoscere se stessi ed emanciparsi.  è un caleidoscopio di storie di coppie o soggetti single, che ruotano intorno alla problematiche del sesso.

La vita di Adele (La vie d’Adèle – Chapitre 1&2 –, 2013) di Abdellatif Kechiche, pellicola che vinse la Palma d’oro a Cannes, creò a suo tempo un certo scalpore per le scene fortemente erotiche tra le due attrici (Léa Seydoux e Adèle Exarchopoulos). Scene attuate con protesi vaginali.

Differente il caso di Love (2015) di Gaspar Noé, regista che si è sempre contraddistinto nel realizzare pellicole con una marcata componente di scandalo. Non soltanto le scene di sesso non simulate, ma per rendere ancor più partecipe lo spettatore, il film fu girato in 3D.

A queste pellicole, si possono poi aggiungere altre opere che contengono piccoli momenti hard: Pola X (1999) di Leos Carax; Canicola (Hundstage, 2001) di Ulrich Seidl; Intimacy – Nell’intimità (Intimacy, 2001) di Patrice Chéreau; 9 Songs (2004) di Michael Winterbottom; Battaglia nel cielo (Batalla en el cielo, 2004) di Carlos Reygadas; De nos amour (Pas de deux) (2010) di Claver Salizzato; Aquarius (2015) di Kleber Mendonça Filho; Las hijas del fuego (2018) di Albertina Carri.

Menzione a parte, però, merita il Tv-Movie Indimenticabile ultima volta (Une dernière fois, 2020) di Olympe de G. e con Brigitte Lahaie. Ritratto di una donna anziana, che sta per morire e vorrebbe vivere le ultime gioie, è interpretato dalla Lahaie, in passato una delle più note attrici porno francesi. Nel film non attua nessuna scena di sesso esplicito, ma alla giovane e prestante coppia (veri attori hard) da consigli su come darsi piacere l’un l’altro durante il sesso.

Gli attori ci danno dentro sul serio

Piatto ricco, ce lo ficco!

(Rocco Siffredi)

Nel già citato Occhi di serpente, l’attore Francis Burn deve recitare una scena di sesso simulato con Sarah Jennings. La foga recitativa dell’attore, però, si trasforma in un rapporto sessuale vero, tanto che l’attrice si lamenta con il regista Eddie Israel.

La storia del cinema è ricolma di scene di sesso simulato, ma alcune di esse, sebbene non rientranti nel concetto di hard (presenza delle penetrazioni), non erano simulate. Ovvero, gli attori hanno amoreggiato veramente.

Per ricollegarci a Harvey Keitel, il protagonista di Occhi di serpente, durante la lavorazione di Eyes Wide Shut circolava il rumors che fu cacciato dal set perché in una scena di sesso ci aveva dato realmente dentro tanto da eiaculare. Notizia falsa. La produzione del film di Kubrick si era allungata “sine die” e Keitel fu sostituito con Sidney Pollack semplicemente per impegni contrattuali stipulati in precedenza.

In una veloce lista, simile al gossip, si possono citare gli amoreggiamenti tra Barbara Hershey e David Carradine, a quel tempo fidanzati, in America 1929 – Sterminateli senza pietà (Boxcar Bertha, 1972) di Martin Scorsese.

Donald Sutherland e Julie Christie, anch’essi a quel tempo in una liaison sentimentale, attuarono realmente la loro passione nella scena più hot di A Venezia… un dicembre rosso shocking (Don’t Look Now, 1973) di Nicolas Roeg.

Nel già citato Diavolo in corpo, nelle scene di sesso a letto, Maruschka Detmers e Federico Pitzalis non fingevano assolutamente. Oppure in Betty Blue (1986) di Jean-Jacques Beinex, nel quale Béatrice Dalle e Jean-Hugues Anglade hanno alcune scene ai limiti dell’hard.

 

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