FESTIVAL DI CINEMA

Venezia.69:“La cinquième saison” di Jessica Woodworth e Peter Bronsens (In Concorso)

Come possono i ritmi naturali e la riconosciuta cadenza delle stagioni essere capovolti per sempre? Nel film di Jessica Woodworth e Peter Bronsens si parla di una ‘utopica predizione’ in cui la natura si ribella al ciclico sfruttamento che l’uomo ne opera

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Anno: 2012

Durata: 93′

Genere: Drammatico

Nazionalità: Belgio/Olanda/Francia

Regia: Jessica Woodworth /Peter Bronsens

Come possono la quiete e la dolcezza di un villaggio contadino, in un posto qualunque del Belgio, rimanere stravolti sino a comprometterne l’umanità? Come possono i ritmi naturali e la riconosciuta cadenza delle stagioni essere capovolti per sempre? Nel film di Jessica Woodworth e Peter Bronsens si parla di una utopica predizione in cui la natura si ribella al ciclico sfruttamento che l’uomo ne opera.

Tutto nasce a causa di un rituale di fine inverno: un rogo, a celebrazione della fine della stagione fredda, che inspiegabilmente non si appicca, immune all’aggressività del fuoco. E in effetti l’inverno non se ne va da queste terre, e la rinascita primaverile, attesa, bramata, necessaria, si tramuta in una nuova stagione di morte. Le api spariscono, le terre smettono di fruttare, le vacche di produrre latte; e automaticamente nella testa della gente si scatenano meccanismi perversi che rispondono alla sola necessità della sopravvivenza.

In questo posto crudele, ormai fuori dallo spazio e dal tempo, due adolescenti, Alice e Thomas, rimangono travolti da questo deperimento; seppure combattenti per la loro purezza, la fame li costringe ad una drammatica prostituzione umana e morale.

Ragionando per illusioni fantascientifiche, ma con uno sguardo possibilista, la coppia di registi fa di quest’opera una osservazione pittorica, raffreddata nei colori e allungata nelle profondità (grazie al contributo fotografico di Hans Bruch Jr.); la narrativa discontinua ed ermetica racconta di personaggi imbruttiti dalle contingenze, ma del cui candore non si sarebbe mai dubitato. Si condanna il rapporto deforme che l’uomo instaura quotidianamente con la natura, gaiamente incarnata dal gallo Fred (una gaiezza che sgretolerà, come le cortecce dei boschi): non canta il poveretto, ma non c’è un bel niente da cantare. Il padrone insiste, lo convince, lo coccola, ma lui tace e lo lascia fare. La sua vendetta è lenta e imprescindibile.

L’universo umano, Corman McCarthy l’aveva già raccontato: l’inevitabile brutalità che colpisce gli uomini messi di fronte a bisogni primari in un mondo futuro o lontano, aveva affascinato anche John Hillcoat, e qui infatti si ritrova il gusto dei panorami infernali di The road. Il padre che tutela il figlio, questa volta, è qui il giovane principe, il Thomas fortunato che non ha mai patito la fame in queste cinque tremende stagioni trascorse, un Robin Hood che ha tenuto in vita poveri e storpi, e che adesso se li carica in spalla per portarli in una vita migliore nella terra delle banane. Anche in questa nebbia fredda Thomas trova una strada, trasportando i buoni periti sulle proprie spalle e cercando di convincere gli altri a percorrerla con lui.

Tuttavia, i compaesani sono lontani dalla sua purezza, medici della peste del diverso e di quello che non sanno capire: chi alla fine viene incolpato del vizio folle in cui la natura si è incastrata è l’immigrato, col figlio disabile, al cui assassinio la prostituta è costretta ad assistere. Tutti elementi di una narrativa tradizionale che fa leva sugli spettri della comunità che si amplificano nell’inferno. Alice, lei, che non ha seguito Thomas, che non si è lasciata catturare quando ancora i loro mondi si sfioravano, lo chiama un’ultima volta, dal suo letto di morte (che se non sarà una morte fisica, lo è di certo spirituale): le risponde Octave, che Thomas sta salvando, con un’ultima parola di congedo, mentre lascia i campi polverizzati senza più affetto né amore.

Al gallo Fred è tagliata la testa e il fallace rapporto sereno con la natura ha fine: ma loser è l’essere umano, comunque.

Rita Andreetti

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