FESTIVAL DI CINEMA

Donatella Finocchiaro. Ritratto di attrice.

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Fin dal suo esordio, con Angela di Roberta Torre, Donatella Finocchiaro si è rivelata una presenza abbagliante per intensità recitativa. Un’interprete che lascia sempre il segno, come ha dimostrato anche nel piccolo cameo del recente La stranezza.

Donatella Finocchiaro ha un’espressività da cinema muto, capace con lo sguardo di restituire tutto il dolore di una condizione di emarginazione o la gioia più solare. Incarnazione di una femminilità mediterranea, Donatella Finocchiaro ha attraversato tutti i generi cinematografici, lavorando nella televisione e nel cinema con i più grandi registi italiani. Erede di una tradizione che incrocia l’abilità drammatica di Anna Magnani con la sensualità dello sguardo di un dipinto di Caravaggio, riflesso sacro e profano di un passione per la messinscena, la teatralità di gesti e la profondità di primi piani travolgenti.

Abbiamo intervistato Donatella Finocchiaro dopo la sua esperienza di giurata al festival Corto Dorico.

Che esperienza è per un’attrice stare in una giuria di un festival e Corto Dorico in particolare?

È stato particolarmente bello stare in questa giuria. A Corto Dorico c’è stato un clima meraviglioso. Vedere una sala così piena anche a mezzanotte, dopo la proiezione dei cortometraggi, sentire la partecipazione del pubblico e la loro attenzione nei confronti di questi piccoli film, è stato bellissimo. C’era una platea di giovani super attenti, ma anche una grande partecipazione del pubblico locale. Questo vuol dire che il festival è riuscito a coinvolgere il territorio e ad Ancona Corto Dorico è diventato un evento culturale importante.

Sapendo che c’era Daniele Ciprì alla direzione, ero sicura che sarebbe stata una bella manifestazione, ma la qualità dei corti era veramente al di sopra di quello che potessi immaginare. Francamente non sapevo che ci fosse un mondo di ragazzi, non solo del Centro Sperimentale, che magari ha i mezzi, ma anche fuori dal Centro Sperimentale, che investe tempo, professionalità e denaro, autofinanziandosi. Questa è la vera passione per il cinema. Così si fa il cinema: anche con pochi mezzi, ma facendo venir fuori il talento. Insomma ho visto piccoli film che fanno ben presagire per il futuro del cinema italiano.

Le sorelle Macaluso

 

A Corto Dorico hai presentato Le sorelle Macaluso. Quali sono i ricordi più forti che ti ha lasciato questo film?

Beh, veramente tanti. Perché, prima di tutto, è stato l’incontro con Emma Dante. Già dal provino, quando l’ho conosciuta per la prima volta, è stata una forte emozione, perché l’amavo come regista di teatro, per me era un punto di riferimento inarrivabile. Sono andata al provino scoraggiatissima, pensando non mi avrebbe mai presa e, invece, poi, mi ha dato il ruolo e, per me, è stata una sorpresa immensa, bellissima. Considero quello con Emma Dante uno degli incontri più folgoranti all’interno della mia carriera, mi ha cambiato, mi ha dato moltissimo. È stato come tornare indietro nel tempo al mio primo film, Angela di Roberta Torre, fatto anch’esso con una regista donna, girato nella stessa città, a Palermo. È come se tra i due film ci fosse un trait d’union. Emma Dante ha la stessa grinta di Roberta Torre ed è una donna di grande talento come lei. Per me è stato come un flashback, ma ritrovandomi con la maturità di vent’anni dopo, perché quando ho girato Angela ero veramente una ragazzina dal punto di vista professionale. Con Emma Dante c’è stato uno scambio artistico indimenticabile.

Che ricordo hai del film che ti ha fatto conoscere, Angela?

Mi ricordo che non ho dormito per due settimane. Avevo fatto teatro, ma quello era il mio primo film. Non è che si nasce, come si dice, “imparati”, si prova, ci si cimenta, si sbaglia. Angela è stata la mia palestra e ho avuto la fortuna di essere stata scelta da una regista molto brava, talentuosa, che mi ha saputo dirigere. È tutta un’arte di incontri il nostro mestiere.

Angela

 

Hai lavorato con i più grandi registi italiani: c’è una specificità nello sguardo femminile dietro la macchina da presa per i ruoli che hai recitato?

Una specificità direi di no. Io credo che ci sia il talento, a prescindere dal fatto che la regista sia donna o uomo. Io credo in registi di talento e registe di talento. Detto questo, penso che il genere femminile vada tutelato, perché, purtroppo, il maschilismo rimane imperante. Non è una semplice opinione, ma statistica. Le registe donne sono pochissime, così come le direttrici della fotografia o tutto il comparto tecnico. Forse sono un po’ di più le costumiste, le truccatrici, le parrucchiere, ma le donne che stanno ai posti di potere sono veramente poche. Questo è stato un ulteriore motivo per cui ho accettato la sfida di Emma Dante, quando mi disse di fare la regia dello spettacolo che mi aveva proposto lo Stabile di Catania, La Lupa, dall’omonima novella di Giovanni Verga. Io volevo che facesse lei la regia. Sul set delle Sorelle Macaluso, discutendone, mi incoraggiava sempre, dicendomi che avevo il talento per potermi misurare anche nella regia. E io l’ho fatto. Noi donne ci dobbiamo incoraggiare a vicenda, secondo me, perché a volte non abbiamo il coraggio di dire “ce la posso fare”, pensando che sono cose troppo importanti, al di sopra delle nostre possibilità, ruoli solitamente appannaggio degli uomini e invece no, bisogna provare, misurarsi. Io sono per le quote rosa nel cinema e in tutti gli ambiti lavorativi, perché per le donne ci vorrà ancora tanto tempo prima di raggiungere una parità non solo a livello sociale, ma anche lavorativo e retributivo.

Il film che avete premiato a Corto Dorico, Tria – del sentimento del tradire, è pressoché tutto al femminile: regista/sceneggiatrice, attrici, direttrice della fotografia, scenografe, costumista.

Non ci abbiamo fatto caso, abbiamo guardato solo la qualità film. Era bellissimo. Ogni inquadratura era un quadro e, per me che vengo dal cinema di Marco Bellocchio, l’aspetto visivo è fondamentale, racconta cos’è la cura estetica dentro la costruzione di un racconto. È importante, perché il cinema, oltre che una storia scritta, gli attori, è fatto di immagini e nelle immagini devi raccontare: per me è questa la bravura di un regista.

Il regista di matrimoni

 

Hai lavorato anche in diversi cortometraggi: c’è una specificità rispetto al lungometraggio che puoi rilevare?

I corti presentano difficoltà diverse rispetto a un lungo, per certi versi sono anche più complicati, perché devi raccontare una storia in un quarto d’ora, devi avere il dono della sintesi e, nello stesso tempo, colpire, soprattutto con un finale che sia, magari, un coup de theatre, ovviamente nel senso di ben costruito, che porti alla fine della storia. I corti non sono una cosa semplice. Sono un vero esercizio di stile per dimostrare, in un quarto d’ora, quello che sai fare. Quindi ammiro quei ragazzi che li usano come biglietti da visita per poter poi fare un lungometraggio. Non è un passaggio facile, perché il mondo del cinema è molto complicato, è un mondo di cannibali, altro che quelli dell’ultimo film di Luca Guadagnino. È molto difficile fare il regista, in tantissimi ci provano, ma solo in pochi, poi, arrivano a tagliare questo traguardo.

Recitare a teatro, in televisione o al cinema è sempre lo stesso mestiere?

Sì, è sempre lo stesso mestiere perché significa avvicinarsi alla verità. Recitare, per me, non significa fingere di essere veri, ma avvicinarsi alla verità. In tutti e tre i campi: teatro, cinema e televisione. Devo dire che a teatro è più complicato perché devi fare almeno un mese di prove, quattro o cinque ore al giorno, quando non sono otto, perché possono capitare spettacoli dove si prova così tanto. A teatro, poi, c’è una tecnica diversa, questa è la differenza, soprattutto nell’uso e nell’importanza della voce, del timbro, del tono da cambiare sempre. Questa cosa si fa anche al cinema, ma s’impara a teatro e rimane dentro di te. Ultimamente  ho recitato nel Filo di mezzogiorno con la regia di Mario Martone: un’ora e mezza senza mai uscire di scena, se non per veloci cambi d’abito. Chiaramente sentivo la necessità di dare un ritmo allo spettacolo, proprio attraverso le variazioni con la voce. Perché, oltre al testo, ci vuole l’interpretazione degli attori, una costruzione del racconto che permetta di tenere l’attenzione del pubblico.

Il filo di mezzogiorno

 

L’ultimo tuo film è La stranezza, dove riesci a brillare anche in un ruolo brevissimo.

In quel ruolo c’erano solo due pose, tra cui una scena bellissima all’inizio del film, con Toni Servillo, che poi è stata tagliata, purtroppo. Poi un’altra in cui faccio la moglie pazza di Luigi Pirandello, che è rimasta. Però è vero che tutti mi dicono che mi hanno notata pure in quel piccolo ruolo, va bene così. Fa comunque piacere essere apprezzati anche per una sola scena di pochi secondi, vuol dire essere riuscita a interpretare la follia, che non è mai una cosa facile.

Com’è stato, invece, passare alla regia? Dirigere invece che essere diretta?

È stato bellissimo, entusiasmante, però fagocitante. Dai veramente il massimo quando fai la regia di uno spettacolo tuo. Quando fai il mestiere del regista non vivi per altro, pensi solo al tuo spettacolo, a scegliere l’attore giusto, la compagnia giusta, il costumista… diventa ossessionante. Però devo dire che mi sono divertita da morire. Io poi dentro lo spettacolo recitavo anche: questa è stata la cosa più difficile. Ti dico la verità: avrei preferito essere fuori, soprattutto gli ultimi giorni, quando sei lì che devi perfezionare e non puoi farlo perché devi recitare, devi stare dentro. Infatti, adesso la prima cosa che farò, appena riprendiamo lo spettacolo per lo Stabile di Catania e il Biondo di Palermo, sarà una revisione. L’anno prossimo faremo una tournée in giro per l’Italia.

Nel 2011 avevi anche diretto un documentario, Andata e ritorno, che era stato al Festival del cinema di Venezia.

 Rispetto al lavoro di attore, quello del regista è estremamente più pesante. È vero che l’attore deve entrare nel personaggio e stare magari anche due mesi a girare un film, ma un regista dietro lo stesso film ci sta due anni, tra il pensarlo, il prepararlo, il girarlo, montarlo e poi distribuirlo. Io in quei due mesi in cui ho girato il documentario, poi con il montaggio sono diventati quattro, vivevo solo per quello, perché fare il regista (come anche l’attore) significa cercare di creare la propria opera d’arte e, quindi, ha a che fare con tutto te stesso, dentro e fuori di te, non ne scappa un neurone, una molecola.

Quali sono i tuoi progetti cinematografici futuri?

Sono in uscita con un film che ho girato con Moni Ovadia, La terra senza, anche se non sappiamo ancora la data precisa di distribuzione. E poi ho finito di girare un film di Berardo Carboni, Greta e le favole vere, con Raoul Bova e Sabrina Impacciatore, che dovrebbe uscire a febbraio. Un film bellissimo, che racconta di una bambina che vuole salvare il mondo. Si parla di inquinamento, cambiamento ambientale, di una bambina che vuole portare un orso polare nel suo posto d’origine. Una bellissima favola con interpreti, secondo me, straordinari: la ragazzina protagonista, Sara Ciocca, è veramente un grande talento e ha già recitato in tanti film, anche in America Latina dei fratelli D’Innocenzo. E poi ho girato I leoni di Sicilia, mi mancano le ultime due pose, lo finiremo adesso, entro l’anno. È da luglio che stiamo girando. È un lavoro magnifico, una serie di otto puntate che uscirà per Disney World in diciannove Paesi. La regia è di Paolo Genovese, con Michele Riondino e Miriam Leone, in particolare con lei, visto che siamo tutte e due di Catania, ci siamo divertite tantissimo, l’humour catanese ci univa moltissimo.

Il cinema sembra ancora divertirti.

Ho la fortuna di aver mantenuto lo sguardo da semplice spettatrice e questo è un dono. Se vedo un film, non ho l’occhio critico dell’addetta ai lavori, ma riesco ancora a mantenere una mia ingenuità. Se c’è da piangere, lo faccio esattamente come accadeva quando ero una ragazzina, prima di cominciare a fare questo mestiere, sia a teatro che al cinema. Mi commuovo, diverto, partecipo ed è bellissimo quando mi succede. Mi fa ancora amare appassionatamente quest’arte.

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