Festival del Cinema Tedesco

‘La mia fine. Il tuo inizio’, la relatività applicata al thriller tedesco

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Fa piacere vedere un thriller che non sia il solito déjà-vu. Anche se, curiosamente, è proprio un film basato sul déjà-vu. Si tratta di La mia fine. Il tuo inizio della regista Mariko Minoguchi, rilanciato dal Festival del Cinema Tedesco di Roma dopo i buoni riscontri in patria (nominato ai German Film Awards 2020) e la vetrina del BFI London Film Festival.

In Italia, alquanto misconosciuto, è tutt’altro che già visto. Un peccato: per il coraggio della proposta. La premessa è ambiziosa, al punto da necessitare un prologo cattedratico alla lavagna di un’aula universitaria. Il giovane Aron spiega il concetto di simmetria temporale: nella fisica quantistica, si può invertire l’arco del tempo di qualsiasi equazione e il risultato non cambia. Passato e futuro hanno dunque la stessa influenza sul presente. E a proposito di alchimie temporali,  arriva giusto in tempo, trafelata, la fidanzata Nora. Amore = felicità, tra i due. Ma un tragico evento sta per scompaginare l’equazione. Risultato: un dramma intenso dalla suspense a orologeria.

Il trailer

La trama

Quando non si applica alla sua teoria della simmetria temporale, Aron (Julius Feldmeier) passa il proprio tempo con la ragazza, Nora (Saskia Rosendahl), ex pattinatrice sul ghiaccio, ora commessa in un supermercato. I due stanno insieme da due anni e sono molto innamorati, ma la loro storia conosce un tragico epilogo. Aron viene ucciso durante una rapina in banca. Per Nora è traumatico affrontare il lutto. Difficile anche la vita dell’altro protagonista, Natan (Edin Hasanovic), la cui figlioletta Ava (Marta Bauer) soffre di leucemia. Le cure mediche sono costose e tutto si fa più complicato quando l’uomo perde il proprio lavoro da guardia notturna. Sarà tentato di accettare una proposta pericolosa dell’amico d’infanzia Maxi. Intanto, incrocia la traiettoria, non meno disperata, di Nora. Nuovo inizio o comune naufragio?

La geometria non è un peccato

C’è un aspetto di calcolo spietato in La mia fine. Il tuo inizio. Con una fredda astrazione sul tempo di stampo quasi nolaniano, il thriller drammatico di Mariko Minoguchi accetta sin da subito di congelarsi nei labirinti del film a tesi. Come meglio evidenziato dal titolo internazionale, Relativity, l’opera diventa, col montaggio a piani temporali sfalsati, la concrezione cinematografica delle premesse spiegate dal suo protagonista-vittima, Aron:

La relatività sostiene che il futuro e il passato hanno la stessa valenza per il presente.

Nella forma, la linearità si perde. La fabula s’intrica in intreccio, i flashback sono rimescolati omogeneamente al racconto. E non servono nemmeno importanti twist della trama, che – si può confessare – conduce in direzione più che prevedibile. L’appassionato gode piuttosto per gli ammiccamenti continui della sceneggiatura, che promettono d’incastrare tutto al posto giusto. Già i nomi appaiono scelti strategicamente: Aron e Nora, l’uno inverso dell’altro, ma anche i palindromi Natan e Ava.

La mia fine. Il tuo inizio, Nora (a destra) con Aron fuori fuoco (a sinistra)

A intervalli regolari, poi, quasi da richiami all’attenzione, altre schegge di teoria, più che di paura. Spesso le somministra proprio Aron:

Non credo nelle coincidenze. È solo una mancanza di informazioni.

Ci sono dunque altri modi di scaldarsi, per lo spettatore, rispetto al classico whodunnit. Chi abbia fatto cosa, è intuibile. Nella trappola di cristallo del tempo, simmetrico e maledetto, si va semmai avanti per piacevole inerzia, non già per suspense. Per il gusto del teorema che combacia.

Sospesi al passato

In un thriller così geometrico, anche se la fotografia verdognola e cobalto raffredda ulteriormente la percezione, allo spettatore è dato accalorarsi di tensione per almeno due ragioni. La prima – e qui bisogna correggere il tiro – è che, in realtà, non avrebbe nemmeno senso parlare di veri e propri flashback. Con un editing così frastagliato tra passato e presente, c’è una sorta di “suspense del passato perpetuo”. Vale a dire: in numerose sequenze, chi guarda La mia fine. Il tuo inizio s’interroga, spiazzato, su quale momento dello sviluppo narrativo si trovi sott’occhio. Non si fanno thriller con le sole pistole.

La mia fine. Il tuo inizio, Nora con la pistola

Emblematica la scena in cui Natan riporta a casa Nora (che nemmeno conosce) dopo una notte difficile della ragazza, e questa gli chieda di vegliarla fino a che non si addormenti. Quando però Nora si risveglia, è solo dopo diversi secondi che capiamo che il set domestico è mutato: in bagno, infatti, trova Aron, alle prese con un attacco di panico. Si è piombati, all’improvviso, nel passato. Ecco la sensazione più diffusa generata dallo script: un panico spettatoriale da sospensione cronologica, per il quale dire “ora” o “allora” è questione di affascinante e nervosa relatività.

Teoria del dolore abbinato

L’altro elemento bruciante del film della Minoguchi è nel far coesistere al calcolo il dolore. La suspense temporale si mescola con l’elaborazione del lutto per Nora e col dramma della malattia della figlia per Natan. L’anima drammatica di La mia fine. Il tuo inizio rischierebbe, qui, di diventare anche troppo lagnosa, con eruzioni del pianto improvvise, isterie da club berlinesi e abbracci in cerca di conforti impossibili.

La mia fine. Il tuo inizio, una scena con Natan e sua figlia Ava, malata di leucemia

Ma anche questo dolore in tandem, in fondo, è tra le simmetrie del film. La proporzione si racchiude, alla fine, là dove tutto ero iniziato: nei sofferti occhi chiari di una splendida principessa del ghiaccio, Saskia Rosendahl, nei panni di Nora. Bravissima, a pattinare su un esordio del genere: così calibrato tra caldo e freddo, intarsio geometrico e intensità emozionale.

Festival del Cinema Tedesco: dal 24 al 27 marzo

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