Conversation

70 Berlinale: Minyan (Panorama). Conversazione con il regista Eric Steel

Sessualità, fede, religione, omosessualità. Presentato nella sezione Panorama del 70esimo Festival di Berlino, Minyan è un Coming of Age in cui parole e silenzi si alternano nel raccontare l’avventura esistenziale di un personaggio alla ricerca della propria identità. Ne abbiamo parlato con il regista Eric Steel

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Minyan è un film dai molti significati. Tra questi penso ci sia quello relativo alla scoperta della propria identità e di quale sia il nostro posto all’interno della comunità. La storia racconta anche la difficoltà di conciliare le necessità del singolo con quelle degli altri. È un’interpretazione corretta? 

Penso che la tua sia un’interpretazione molto accurata. Molto di quello che racconto fa riferimento al significato assunto dal concetto di Minyan nella religione ebraica. Ci sono forme di preghiera che puoi recitare da solo, nel momento in cui ti svegli al mattino, quando ti lavi le mani. Alcune, invece, richiedono la presenza di un gruppo e che, nel caso specifico, hanno bisogno di dieci uomini. Credo che in questo i rabbini siano stati saggi pensando alla spiritualità individuale di ognuno di noi senza perdere di vista la vita comunitaria.

Minyan è la storia di un ragazzo, David, che attraverso l’amore per la letteratura e la poesia cerca di capire se stesso, la sua sessualità e la propria fede. Come la libertà della danza, si tratta di una continua scoperta, tenendo conto che se diventi chi sei poi devi poi capire qual è il tuo posto. Quando sei un ebreo russo, come lo è stato il nonno di David, sei perseguitato; la stessa cosa capitava una volta in America, solo per il fatto di essere nato in quella nazione. Il senso di non avere una comunità è un concetto molto importante. Penso anche che lui non si senta sicuro di appartenere alla sua famiglia: non sa se suo padre lo possa picchiare o uccidere perché gay o se il nonno e la madre lo rifiutino per lo stesso motivo. Alla stessa maniera, credo che lui non si senta di appartenere alla comunità gay, né al suo stesso corpo. Il tutto è una conseguenza dell’idea comune che come gay non ti piaci, del pensiero che ci sia qualcosa di sbagliato in te e che l’unica cosa che puoi fare è di uscire da questa vita, da questo corpo.

La sequenza iniziale mi pare sia stata costruita per esprimere il contrasto tra la claustrofobia dell’istituto famigliare e il senso di libertà del mondo esterno. Da una parte gli interni di appartamenti, dall’altra il mare di fronte alla spiaggia: sembra la sintesi delle due nature che convivono in David.  

Sì, esattamente. Dopo la morte di un ebreo segue un periodo di lutto chiamato Shiva in cui non si può uscire da casa. Finito questo si può andare fuori. Dunque, nella prima scena abbiamo un piccolo appartamento dove vivono questi immigrati. Si tratta di uno spazio piccolo, caldo e claustrofobico, con molte persone stipate per un periodo lungo.

È talmente così che a volte non sembra neanche una casa ma, piuttosto, una stanza d’albergo. Sembra in un certo modo un non luogo.

Sai, ci sono immigrati che arrivavano dalla Russia senza avere più niente delle loro cose, quindi molti mobili sono di seconda mano e con sopra i piccoli oggetti che sono riusciti a portare con sé. Dall’altra parte abbiamo il lungomare di Brooklyn a Brighton Beach, piuttosto lungo e piatto, con poca terra e con l’orizzonte molto lontano; la sensazione è quella di stare di fronte a un mare infinito. Si ha questa idea della separazione delle acque, del poterlo attraversare o camminarvi sopra per andare in un altro luogo.

Minyan può essere visto anche come una sorta di coming of age. La sua storia, infatti, racconta il raggiungimento di nuove consapevolezze ottenute attraverso l’alternarsi di piccole gioie e grandi sofferenze. David un poco alla volta rinasce. 

Penso lo sia. In tedesco viene definito Bildungsroman. In ogni sequenza c’è una parte emotiva, una parte fisica, una parte intellettuale. Diverse persone entrano nella sua vita in modi differenti e hanno bisogno di lui. Ci sono anche diversi maestri; in qualche modo anche il tassista lo è.

L’apprendistato di David non si svolge solo attraverso esperienze materiali. A sottolineare il cambiamento sono anche attestati di stima, come quelli del professore che durante la lezione si congratula con lui per l’esegesi di una pagina tratta da James Baldwin. Oppure il fatto che a lui spetti la lettura della preghiera funebre, incarico che ne sottolinea l’importanza all’interno della comunità ebraica. 

David recita una preghiera funebre, la stessa di cui all’inizio aveva chiesto al nonno le parole. Nel film non vediamo nessuno insegnargliele, ma andando ogni settimana al Sabbah, dove l’orazione viene recitata, è impossibile non impararla. Questa è una delle cose che nel film non viene raccontata; ho pensato che non tutte gli aspetti della sua educazione dovessero essere raccontati, così alcune li ho lasciati sottintesi.

Infatti, utilizzi un montaggio che procede per ellissi. La fine di alcune scene possiamo solo intuirle ma non vederle. Questo perché Minyan è un film di dialoghi ma anche di silenzi. Volevo chiederti se in qualche modo se il montaggio fosse lo specchio di queste due modalità? 

Sì, si può anche guardare il film sotto questo aspetto perché non parla di nessuna delle cose che tratta. Il nostro personaggio non parla veramente di fede, di religione, né di sessualità e passa molto tempo prima che si possa sentire parlare di quest’ultima. Fin dall’inizio la nostra idea era quella di costringere gli spettatori a osservare e a prestare attenzione. Se riescono a farlo dall’inizio i tagli di cui stiamo parlando faranno dire loro: “Oh sì, ora capisco perché lui si trova in una scuola religiosa diversa”. Se non fai così molte cose possono sfuggire. Nella fase iniziale abbiamo cercato di essere molto cauti per essere sicuri che il pubblico prestasse attenzione ai particolari. Abbiamo usato la musica e il silenzio, mentre la macchina da presa vede cose che lo spettatore potrebbe non notare.

Parliamo dei riferimenti del tuo film: c’è una scena nella quale David bacia una ragazza e mentre lo fa osserva la sua faccia riflessa nello specchio. Mi sembra chiaro il riferimento al Cruising di William Friedkin, non solo per il tenore delle immagini ma anche per certe vedute dei locali gay dell’East Village. Da parte tua c’era questa idea?

Si, credo di si. C’era soprattutto quella sulla possibilità di poter nascondere la propria identità. Gli ebrei in Russia pensavano a come poter andare via, mentre in Germania durante l’olocausto cercavano di occultare le loro origini. Fino agli anni ’60 i gay hanno sempre saputo di doversi nascondere e di vivere vite diverse. Come tutti personaggi gay del cinema la maggior parte di loro ha trascorso la vita all’interno di matrimoni eterosessuali. Per questo penso che Minyan si interroghi su come ci si possa nascondere e su coloro che sanno cosa stai facendo. Poi, però, se ti guardi allo specchio vedi chi sei e riconosci i tuoi segreti. Per quanto riguarda il film di Friedkin c’è sicuramente l’idea, ma non così diretta. La macchina da presa segue il ragazzo, ma alcune volte David si gira verso lo specchio per vedere come lui sia veramente nella realtà.

Nella scena in questione però c’è anche la ragazza.

Sì, ma lei non lo vede mentre si guarda allo specchio e non sa che David lo sta facendo, quindi è come se fosse solo.

In Minyan fai spesso riferimento a James Baldwin. In particolare, il 1987, uno degli anni in cui si svolge la storia, è quello della morte dello scrittore. Di lui conosciamo le battaglie per i diritti civili e a favore delle minoranze, dunque mi piacerebbe sapere qualcosa di più sulla decisione di farne una delle icone del film.

Direi che ci sono molti riferimenti biografici a cose che mi sono successe nella vita. Come scrittore James Baldwin è stato molto importante. All’epoca in cui leggevo i suoi libri penso di non averlo compreso completamente. Ho divorato Gridalo forte (Go Tell it on the Mountain, ndr), prima ancora di leggere La camera di Giovanni (Giovanni’s Room, ndr). Rifacendoti a quei libri percepisci la sua sensazione di essere straniero in una terra straniera e il sentimento di non sapere a chi appartieni. Puoi nascondere chi sei oppure no. Nel film ritroviamo questo paradosso. Certamente gli anni Settanta e Ottanta erano l’inizio di tutto questo, era possibile notare i primi spiragli. Se entravi in una libreria potevi trovare la risposta sulla tua vera identità in testi come La camera di Giovanni. Magari all’epoca non vedevi coppie gay nel mondo reale, ma eri in grado di trovarle nei libri e in libreria.

Tornando a Cruising, anche il film Friedkin fa capire che gli anni Ottanta erano un’epoca di cambiamento ma anche di nuove paure. In Minyam si accenna indirettamente all’Aids. Hai ambientato il film negli anni Ottanta per allineare i mutamenti del personaggio a quelli della sua epoca?

Ho fatto coming out verso la metà degli anni Ottanta. All’inizio pensavo che quel periodo fosse perfetto per essere un giovane gay, ma con il passare del tempo questo si rivelò errato perché le persone iniziarono a morire. Nelle prime fasi non era chiaro cosa stesse accadendo, ma verso il 1986/1987 ci si rese conto di questa piaga tremenda che aleggiava sull’intera comunità. Ho immaginato David al di fuori di tutto questo: lui vive in un luogo dove non si parla nemmeno della sessualità e non sa nemmeno se è gay. Non sa cosa sia l’Aids fino a quando non se ne va da casa e se ne ritrova coinvolto. Penso che tutto questo faccia parte del suo destino. È una sorta di sfida esistenziale: essere chi sei, cercare di scoprire il tuo vero essere e ritrovarti in situazioni che potrebbero costarti la vita. Ora noi siamo qui a Berlino e in questo periodo ricorre  il settantesimo anniversario di Auschwitz. Penso sia chiaro agli ebrei che prima dell’arrivo del Nazismo prosperavano, mentre poi hanno dovuto accettare che l’appartenenza alla loro razza sia stata causa di morte e distruzione.

Nel film non eviti di far vedere scene di sesso. Penso si tratti di una scelta coraggiosa dal punto di vista della distribuzione, specialmente negli Stati Uniti. È un rischio che hai preso in considerazione oppure no. 

Non ho mai visto questa decisione in termini di rischio.

Te lo chiedo perché in Italia si tratta di una questione da pretendere in considerazione, non solo in scene omosessuali ma anche eterosessuali. 

Sì, come in Chiamami con il tuo nome, dove il sesso inizia in camera ma poi al posto di quello c’è un uccello sulla finestra. Ho un background come autore di documentari, avendo fatto un film sui suicidi sul Golden Gate Bridge (The Bridge, ndr), in cui ho ripreso le persone mentre si gettavano dal ponte, quindi l’idea di dover indietreggiare o avere un qualche motivo per distogliere la macchina da presa da qualcosa che per me è genuino e autentico non aveva senso. Non si trattava di prendere un rischio o meno, ma di rappresentare la realtà  in maniera autentica.

Per la traduzione dall’inglese si ringrazia Cristina Vardanega.

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