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The Bra – Il reggipetto: intervista al regista del film, Veit Helmer

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Come il principe azzurro con la scarpetta di Cenerentola, così nel tuo film il conducente del treno si mette alla ricerca della proprietaria del reggiseno per dichiararle il suo amore. L’uso di un codice fiabesco e non realistico ha aiutato The Bra – Il reggipetto a comunicare meglio ciò di cui parla e cioè la poesia della vita, la passione, il trascorre del tempo e il significato dell’esistenza?

Impostare una storia in un ambiente senza tempo, in un luogo non specifico, dà a The Bra una prospettiva più universale. Il film non si occupa dei problemi specifici in Azerbaigian, Germania o Italia. Penso che l’espediente fiabesco aiuti le persone di culture e background diversi ad accedere più facilmente alla storia e ai problemi che il mio protagonista sta affrontando. Con esso il racconto diventa metaforico.

Il tempo della storia è segnato dal ritmo inesorabile del treno che, in un certo senso, delinea un’esistenza insignificante, fino a quando la speranza di trovare la donna amata restituisce a Nurlan il gusto della vita. Come a voler dire che solo l’amore è in grado di dare un senso all’esistenza. È così?

Ci sono molte cose significative nella vita che puoi fare per darle senso, specialmente in un momento in cui i politici non riescono a dare risposte a domande esistenziali. Per quanto mi riguarda, penso che senza amore il vivere diventi noioso. Non importa di che tipo sia perché l’amore esiste in una varietà di colori. L’importante è sceglierne uno.

Da questo punto di vista, si trova una conferma nelle donne visitate dal protagonista. Per loro misurare il reggiseno ed essere la prescelta significa essere di nuovo al centro dell’attenzione e in qualche modo tornare alla vita.

Le donne in quel quartiere hanno tutte passioni segrete. Il reggiseno di questa storia diventa un catalizzatore, permettendo loro, almeno per un giorno, di vivere i loro sogni; come capita alla madre dei tre bambini, che sognava sempre di essere una ballerina. Usa il macchinista come suo pubblico. In un certo senso, sono più le donne a farlo che lui a usare loro.

La scelta di non lasciare che i personaggi pronuncino una parola si riferisce, in particolare, a un cinema, quello delle origini oramai scomparso. Era questo anche un modo per riferirsi a una poesia della vita non più appartenente all’essere umano?

Penso che i momenti non verbali tra gli esseri umani siano quelli più forti. Solo quando ti senti a tuo agio a stare con qualcuno senza parlare allora succede che le anime possono connettersi. Io voglio comunicare con le anime del pubblico, non solo con il loro cervello. Sento che le parole sono banali. C’è ne sono troppe parole. Bisogna farsene una ragione.

Collochi la storia in un paesaggio aspro e soleggiato come un western contemporaneo. Era questo un riferimento voluto?

Certo, la steppa dell’Azerbaigian dà la sensazione di essere in un paesaggio da cinema western, ma invece di un cavallo il mio eroe sta cavalcando un treno.

Denis Lavant, Paz Vega, Maia Morgenstern, Chulpan Khamatova nei ruoli secondari, Miki Manojlovic in quello del protagonista. Hai privilegiato attori con una forte immagine iconografica. È stato un modo per bilanciare il fatto che ciascuno di loro rimane in scena per pochi minuti?

Ho fatto l’audizione di attori in dieci paesi diversi. Per loro è stato facile recitare senza parole, ma per alcuni questo tipo di arte è stata stimolante. Sono molto grato a tutti gli attori che hanno accettato la sfida e si sono uniti all’avventura. In termini di riprese, The Bra è  stato uno dei film più difficili della mia vita.

Mettere in scena azioni senza dialogo significa affidare il compito di raccontare al corpo e al viso dei personaggi. Cosa hai chiesto ai tuoi attori in termini di recitazione?

Di non agire. Quando senti l’emozione giusta, il pubblico può vederla nei tuoi occhi. Sembra semplice, ma è molto difficile.

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