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Interviews

Italian Horror Fest Città di Nettuno: intervista a Stefano Leonforte, autore di “A qualcuno piace l’horror”

Stefano Leonforte è l’autore di un dettagliatissimo “A qualcuno piace l’horror – Il cinema della Hammer Films”. Istintivamente simpatico, appassionato, quasi enciclopedico nell’introdurre i contenuti del suo libro, il giovane autore è riuscito sin dall’inizio a rendere interessanti, per l’uditorio, la genesi e gli aspetti più rilevanti di un volume la cui realizzazione ha richiesto diversi ann

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Non solo proiezioni, all’Italian Horror Fest Città di Nettuno. Come anche in precedenti annate, gli incontri organizzati in una piccola area del Borgo Medievale, con presentazioni di libri, riviste e quant’altro, hanno saputo calamitare l’attenzione di addetti ai lavori e altri appassionati di cinema. Più in particolare, a generare in noi una particolare curiosità è stato l’evento organizzato il 5 agosto scorso; in veste di moderatore c’era un Antonio Tentori al solito puntualissimo e sagace, nei suoi interventi, ma a risultare persino sorprendente è stata la preparazione del saggista presentato per l’occasione, ovvero Stefano Leonforte, autore di un dettagliatissimo A qualcuno piace l’horror – Il cinema della Hammer Films. Istintivamente simpatico, appassionato, quasi enciclopedico nell’introdurre i contenuti del suo libro, il giovane autore è riuscito sin dall’inizio a rendere interessanti, per l’uditorio, la genesi e gli aspetti più rilevanti di un volume la cui realizzazione ha richiesto diversi anni.

Quasi scontato che pochi minuti dopo, alla fine della presentazione, A qualcuno piace l’horror – Il cinema della Hammer Films fosse già in mano nostra. Ben 271 pagine formato gigante, per approfondire la storia della casa di produzione britannica divenuta presto di culto, presso i più accaniti seguaci dell’horror e non solo di quello, come vedremo meglio andando avanti. Un viaggio davvero affascinante, insomma, tra certosine ricostruzioni di quel datato mondo di celluloide, tra curiosità d’ogni tipo, tra interpretazioni vivide e acute dei film più significativi prodotti dalla Hammer; con in coda un bonus altrettanto gradito, ovvero quella carrellata di coloratissime locandine da sfogliare leccandosi le dita per la soddisfazione!

Ed è così che noi, per dare ai lettori di Taxi Drivers un’idea più chiara del bel libro pubblicato da Edizioni Leima, abbiamo intercettato il peraltro disponibilissimo Stefano Leonforte, costringendolo a una lunga, rinfrancante e gustosa chiacchierata.

All’autore di un libro dettagliatissimo e appassionante come “A qualcuno piace l’horror – Il cinema della Hammer Films”, vorremmo innanzitutto chiedere quando è nata questa passione per la Hammer e quanto tempo è durata la preparazione di un testo così corposo.  

La mia passione per la Hammer, ma più in generale per il cinema fantastico, ha radici lontane. Sin da bambino ho subito il fascino dei grandi miti dell’orrore, Dracula in primis, e ricordo che, tra le svariate videocassette dei miei genitori, ce n’era una con un passaggio televisivo di Dracula, principe delle tenebre. Adoravo quel film, lo vedevo almeno due volte a settimana! Naturalmente non potevo sapere si trattasse di un capitolo all’interno di un lungo ciclo di pellicole prodotte dalla medesima compagnia, ma successivamente, girando tra gli scaffali di una videoteca, mi imbattei nel VHS di Il marchio di Dracula. Ricordo uno spaventoso primo piano di Christopher Lee sulla copertina, con gli occhi rossi e i canini in bella mostra. Ovviamente lo noleggiai subito, e di lì in poi svariate altre volte. Credo  che questi due film, insieme a La mosca di Cronenberg, abbiano segnato in maniera indelebile la mia infanzia e la mia adolescenza. Ero ancora troppo giovane per interessarmi realmente a chi quei film li aveva realizzati, registi, tecnici e via dicendo, ma qualche anno dopo, quando posai gli occhi su altri cult hammeriani come La mummia e Le amanti di Dracula, capii che c’era un mondo fantastico che aspettava solo di essere scoperto. Così, tra un passaggio televisivo e una affannosa ricerca in videoteca, mi appassionai sempre più a questi horror coloratissimi che immancabilmente iniziavano con la dicitura “A Hammer Films Production”. Si trattava peraltro di film riconoscibili sin dai primissimi fotogrammi: le musiche dissonanti, i colori accesi e la grafica dei titoli rappresentavano un autentico marchio di fabbrica. Ricordo anche che mi ingegnavo nel tentativo di riconoscere i set o i volti noti che, di film in film, venivano riutilizzati da questa fantomatica Casa britannica, la quale, scoprii in seguito, aveva realizzato non solo film horror, ma anche thriller, commedie, film di guerra e di pirati, avventure preistoriche! Con l’andare degli anni, e parallelamente al sempre crescente amore per il cinema di genere, ho reperito buona parte di questi film e letto quanto più mi fosse possibile sulla Hammer, convinto che, prima o poi, mi sarei cimentato con la stesura di un volume che ne raccontasse la storia, i film, l’importanza all’interno dell’universo e della storia del cinema popolare. Di fatto, la preparazione di “A qualcuno piace l’horror” mi ha impegnato per circa tre anni.

Frankenstein and the monster from hell 1

Scendendo nei dettagli, come si sono sviluppate le tue ricerche? E quali sono state le principali difficoltà nel mettere le mani sui materiali e sulle informazioni meno reperibili?

Cominciamo col dire che il mio obiettivo era quello di raccontare e analizzare l’opera hammeriana nella sua interezza, e non solo, quindi, il versante orrorifico della sua produzione. Al principio, di conseguenza, mi sono occupato di compilare una filmografia corretta. Può sembrare strano, ma quando si ha a che fare con una compagnia che ha calcato la scena per circa trent’anni, e che per giunta rinasce nel ’49 (come Hammer Film Productions) dalle ceneri di una precedente compagnia in attività tra il ’34 e il ’37 (la Hammer Produtions), errori e inesattezze sono all’ordine del giorno. Per questo sono rimasto in contatto con una curatrice del British Film Institute, Josephine Botting, che mi è stata di grandissimo aiuto nel ricostruire le prime fasi della storia e delle voci filmografiche della Casa. In seguito mi sono dedicato alla ricerca di quei film che non mi era riuscito di reperire precedentemente, e, al contempo, ho stilato una sorta di indice preparatorio, una scaletta che mi permettesse di raccontare l’epopea Hammer abbinando alla ricostruzione storica, frutto di una lunga ricerca su numerosi testi e documenti di archivio, una analisi critica dei filoni e dei singoli film che li costituiscono. Le informazioni più difficili da reperire, i dati tecnici relativi alle singole pellicole, rappresentano un aspetto che mi ha sempre affascinato molto, e su cui ho lavorato con rigore e grande impegno. Parlo di budget, date di lavorazione, location, metraggi e durate in minuti delle pellicole, titoli di lavorazione, compagnie di distribuzione e classificazioni in censura della British Board of Film Classification e Motion Pictures Association of America. Nel maggio 2012, inoltre, mi sono recato all’Archivio Revisione Cinematografica della Direzione Generale per il Cinema (Ministero per i Beni e le Attività Culturali di Roma) per uno studio approfondito dei fascicoli censura italiani. Questa lunga ricerca mi ha permesso di scoprire i titoli corretti con cui la prole Hammer è stata distribuita nel nostro paese, le società distributrici, i metraggi, le date e i numeri dei visti censura, nonché i tagli e gli alleggerimenti apportati alle prime edizioni cinematografiche e alle eventuali seconde edizioni (per il mercato televisivo o DVD). È stata una ricerca faticosa in termini di tempo, ma allo stesso tempo piacevole ed estremamente gratificante.

Senza la pretesa di sintetizzare tutto ciò che nel libro è spiegato così minuziosamente, quale pensi sia stato, a livello produttivo, il segreto che ha permesso alla Hammer di ritagliarsi nell’immaginario del cinema horror uno spazio così importante?

Da un lato la capacità, grazie ad abili sceneggiatori come Jimmy Sangster e, in seguito, John Elder (alias Anthony Hinds), di reinterpretare i grandi miti della tradizione gotica secondo uno stile personalissimo che, di fatto, coniugava la necessità di adattarsi a budget irrisori con quella di soddisfare il crescente desiderio di cinema d’evasione delle platee di mezzo mondo. All’epoca della loro uscita, sul finire degli anni Cinquanta, i primi gotici della Hammer, La maschera di Frankenstein e Dracula il vampiro, colpirono allo stomaco la piatta ripetitività della proposta cinematografica inglese favorendo il nascere di un mito che, grazie soprattutto all’uso del colore e al taglio eccessivo degli orrori evocati sullo schermo, si è via via consolidato fino a sedimentarsi nell’immaginario popolare. In seguito, com’è ovvio, la Casa ha attraversato periodi più e meno felici, lottando, con alterni risultati, nel tentativo di mantenere vivo il rapporto con il pubblico. Penso ad esempio all’inizio degli anni Settanta, quando vennero introdotti elementi più espliciti dal punto di vista sessuale e della rappresentazione della violenza. Il viaggio della Hammer, in altre parole, è stato davvero molto lungo, costellato di trionfi e sonori insuccessi. Ma il segreto che le ha permesso di ritagliarsi uno spazio così importante nell’immaginario dell’orrore, più di tutti gli altri, risiede a mio parere nella straordinaria raffinatezza figurativa delle sue produzioni. James Carreras e Tony Hinds, la coppia ai vertici della società, intuirono che per realizzare ottimi film a basso costo era necessario affidarsi a un gruppo di artigiani di valore assoluto, straordinari professionisti come il direttore della fotografia Jack Asher e lo scenografo Bernard Robinson, il compositore James Bernard, i truccatori Phil Leakey e Roy Ashton, gli effettisti capitanati da Les Bowie e molti altri. I classici Hammer sono film alchemici in cui ogni aspetto, dai colori accesi alle magniloquenti scenografie degli interni, dai temi invasivi ai curatissimi costumi, senza dimenticare il talento di registi come Terence Fisher, si esalta a vicenda in uno stile organico assolutamente inconfondibile, lo stile Hammer, appunto. Di fatto questa è una caratteristica propria a tante stagioni del cinema di genere, si pensi a quella dell’orrore italiano di fine Settanta inizio Ottanta, in cui una straordinaria generazione di tecnici e artisti giocò un ruolo fondamentale nella messa in scena degli incubi, tra gli altri, di Lucio Fulci.

Le amanti di Dracula 2

Quali nomi si potrebbero fare, tra gli attori e le attrici più popolari dell’epoca, se si volessero elencare i fedelissimi della casa di produzione britannica, che per la sua affermazione hanno contato di più?

Be’, la squadra di caratteristi cui normalmente si affidava la Hammer contava su professionisti come George Woodbridge, Michael Ripper e Miles Malleson, di film in film impegnati in ruoli di contorno come osti, poliziotti, vetturini e chi più ne ha più ne metta. Andre Morell ha prestato la sua professionalità e il proprio talento a classici come, tra gli altri, La furia di Baskerville e La lunga notte dell’orrore. Ma le due star che hanno contato di più nello sviluppo dell’immaginario hammeriano sono chiaramente Peter Cushing e Christopher Lee, a mio parere tra i più grandi attori britannici di tutti i tempi. Senza di loro non credo che la Hammer avrebbe riscosso lo stesso successo.

Ne abbiamo già parlato in pubblico durante l’incontro, pertanto vorrei chiederti nuovamente qualcosa sulle sporadiche incursioni della Hammer nella science fiction, con particolare riferimento al ciclo di film incentrato sulla figura del Dottor Quatermass.

È vero che la Hammer, specie rispetto all’horror, ha frequentato con minor assiduità e frenesia i territori della fantascienza. Tuttavia in questi sporadici incontri si nascondono autentici gioielli, penso all’ambizioso Viaggio nell’interspazio di Fisher, del ’53, che trasporta un intreccio tra il giallo e la spy-story in un contesto fantascientifico; o al bellissimo Hallucination di Losey, controverso ma straordinario esempio di science fiction autoriale e ferocemente politicizzata. Le più fortunate scorribande hammeriane nei luoghi della fantascienza, com’è noto, sono però quelle del dottor Quatermass, grazie al quale, peraltro, la Casa riesce a salvarsi durante una delle più difficili fasi della sua storia. Sul finire del ’54, infatti, a un passo dal baratro dopo la fortunata ma ormai conclusa stagione del noir, la Hammer, spinta dallo sviluppo della letteratura e del genere fantascientifico nel dopoguerra, dà il via alle riprese di L’astronave atomica del dottor Quatermass, tratto da un serial televisivo di Nigel Kneale. Il film, in originale “The Quatermass Xperiment” (l’eliminazione della “E” e il risalto dato alla “X”, ovvero alla lettera che indicava il divieto ai minori di 16 anni, voleva enfatizzarne i contenuti eccessivi e scioccanti) fu un tale successo al botteghino che la Casa mise subito in cantiere una nuova avventura fantascientifica, X contro il centro atomico, ispiratissimo esordio di Sangster come sceneggiatore di un lungometraggio. Il secondo capitolo della trilogia Quatermass, I vampiri dello spazio, seguì di lì a poco, sempre tratto da un serial di Kneale che, stavolta, firmò anche la sceneggiatura a quattro mani con Val Guest, confermato dietro la macchina da presa. E proprio all’intervento di Kneale, più che a un budget di tutto rispetto dovuto all’intervento della United Artists, si devono le grandi differenze tra questi primi due episodi. Laddove L’astronave dipingeva Quatermass quasi come un automa privo di scrupoli, infatti, I vampiri dello spazio ci presenta un protagonista più in linea col Quatermass televisivo, meno burbero e più riflessivo, più “umano”, se vogliamo, ma anche un intreccio basato non tanto sull’attrazione per il repellente, quanto su una forma più “terrena”, politica di crudeltà. Di fatto la pellicola mette in scena un inquietante complotto governativo su larga scala, con un Male alieno annidato nelle istituzioni, nelle alte cariche, e si propone come lucido esempio di fantascienza impegnata favorita, in questo caso, dall’angoscia generazionale e dalle tensioni represse dell’Inghilterra post crisi di Suez. Per il terzo capitolo della trilogia, peraltro l’unico a colori, bisognerà attendere dieci anni. L’astronave degli esseri perduti è il Quatermass che preferisco, frutto di una gestazione travagliata che, dopo svariati anni spesi tra rinvii e riscritture, consegna uno strepitoso script di Kneale nelle mani di un nuovo regista, Roy Ward Baker, e di un nuovo attore protagonista, Andrew Keir. È il Quatermass più oscuro, pessimista e sottilmente inquietante, un capolavoro tra l’horror e la fantascienza che, come scrivo nel volume, sconfina nella teologia per presentarci una parabola simbolica sulle origini e la natura oscura dell’uomo. Trovo paradossale che, dopo un film del genere, la Hammer torni a frequentare i luoghi della science fiction nello stralunato, ambizioso ma sfortunatissimo Luna zero due

Viaggio nell'interspazio 2

In un capitolo del libro ti soffermi sulle aurorali co-produzioni degli anni ’50 con gli Stati Uniti. Cosa puoi accennarci a riguardo e quali sono stati, più in generale, i rapporti tra il cinema di genere prodotto nel Regno Unito e la tradizione analoga, finanche più forte, presente nel cinema americano, un culto che in quegli stessi anni aveva spinto gli americani a realizzare (sia nell’horror che nella fantascienza) una serie di indimenticabili B-movies?

La Hammer instaura i primi contatti con produttori e distributori americani sul finire del 1950, nel pieno di una crisi che minaccia di condurre al fallimento l’industria britannica. In questo senso James Carreras, responsabile degli accordi produttivi e del lato finanziario della società, fu tanto furbo quanto fortunato, perché in un momento in cui le compagnie inglesi chiudevano una dopo l’altra, si assicurò, prima con Alexandeer Paal, quindi con Sol Lesser e Robert Lippert, l’appoggio di partner finanziari di spessore e, soprattutto, le prime distribuzioni garantite in America. L’accordo più fecondo e duraturo, per la precisione di cinque anni, fu quello siglato con Robert Lippert, che operava per conto della Fox, e con cui la Hammer produsse una lunga serie di noir che, per lo più cinici e irrequieti, recavano spesso precisi riferimenti alla realtà inglese del dopoguerra. Penso ad esempio a Esca per uomini, il primo film Hammer diretto da Terence Fisher, ma anche a Pantera bionda e Pagato per uccidere, film che, interpretati di norma da celebri attori statunitensi forniti da Lippert, contribuirono a rendere la Hammer una compagnia nota in America. Come hai giustamente sottolineato, la tradizione di genere statunitense era non solo più forte e radicata, ma anche una grande fonte di ispirazione, e l’esempio principe è proprio quello della fantascienza, che nel dopoguerra gode di una notevolissima espansione. Come già accennato, se la Hammer tenta il tutto per tutto con L’astronave atomica del dottor Quatermass, ciò si deve anche al successo di pellicole americane come La guerra dei mondi, Destinazione terra e Assalto alla terra.

Facendo una breve carrellata, quali sono stati oltre all’horror e alla science fiction i generi che la Hammer ha saputo approcciare in modo più proficuo?

Quanto a consistenza, direi senz’altro il noir dei primi anni Cinquanta. Anche il filone bellico e quello degli avventurosi, dal cappa e spada ai film di pirati, regalano autentici gioielli. L’isola dei disperati, Nemici di ieri, I pirati del fiume rosso, Gli spettri del capitano Clegg e La dea della città perduta sono solo alcuni tra tanti film estremamente godibili e raffinati. Ma personalmente ritengo imprescindibile il filone del giallo, che caratterizza la prima metà degli anni Sessanta e gli anni a cavallo tra Sessanta e Settanta. Credo che La casa del terrore sia un capolavoro assoluto, ma anche Il maniaco, Il rifugio dei dannati e L’incubo di Janet Lind rappresentano film di grande qualità, tanto dal punto di vista narrativo quanto da quello tecnico-artistico. Le avventure preistoriche, inoltre, su tutte Un milione di anni fa e Quando i dinosauri si mordevano la coda, sono tuttora una gioia per gli occhi, specie per chi, come me, non ama l’odierna dittatura della CGI.

Secondo le tue personali preferenze, e pescando tra i film meno visti in Italia, quali sono le produzioni horror della Hammer che ti sentiresti di segnalare al pubblico degli appassionati, per qualche gustoso recupero?

Tra i meno conosciuti direi senz’altro Il mistero del castello, delizioso incubo vampiresco, Il mistero della mummia, estremamente sottovalutato, e The Devil Rides Out, purtroppo inedito in Italia. Mi permetto anche di segnalare due pellicole estranee ai contesti horror della Casa, e cioè L’assassino è alla porta, splendido poliziesco di Val Guest, e Corruzione a Jamestown, un controverso e strepitoso film di Cyril Frankel sul tema della pedofilia.

Cosa puoi dirci del recente ritorno della Hammer Films sulla scena della produzione cinematografica, dopo una pausa durata così a lungo?

La rinascita della Hammer, dopo vari tentativi falliti, avviene nel maggio 2007 grazie a un consorzio europeo capitanato dalla Cyrte Investments BV, e i primi lungometraggi di questo nuovo corso, dopo la serie Web Beyond the Rave, sono Wake Woode Blood Story, remake del fortunato horror svedese Lasciami entrare. Lo stile, a onor del vero, conserva poco della raffinatezza dei vecchi cult hammeriani, ma questo è il prezzo da pagare al trascorrere del tempo. Sono film che risentono dell’estetica moderna, che tende purtroppo ad appiattire un po’ tutto. Ma mi ha divertito The Resident, con Hilary Swank e Christopher Lee, e ho trovato estremamente piacevole e ben fatto The Woman in Black, coraggioso nel riproporre oggi un’ambientazione in costume, ai primi del Novecento.

Se ti chiedessero, per un nuovo studio monografico, di scegliere nel mondo anglosassone un’altra storica casa di produzione, dedicatasi in maniera altrettanto duratura e incisiva al cinema di genere, dove ricadrebbero le tue preferenze?

Trovo deliziosi gli horror della Amicus, ma probabilmente sceglierei la Tigon.

Per finire, puoi dirci qualcosa sulla tua precedente pubblicazione, il saggio “Bram’s Stoker’s Dracula. Il conte vampiro secondo Francis Ford Coppola”? E in questo momento stai già lavorando a qualcosa di nuovo o ti stai dedicando principalmente alle presentazioni e ad altri eventi, pensati per fa conoscere “A qualcuno piace l’horror – Il cinema della Hammer Films” in giro per l’Italia?

 Si tratta di un saggio interamente dedicato al film di Coppola, che personalmente amo molto. Nel libro ricostruisco nel dettaglio le vicende produttive della pellicola, dalla scrittura della sceneggiatura alla lavorazione vera e propria, per finire con la lunga, travagliata fase di post-produzione. Non manca naturalmente un’ampia analisi critica del film, con interviste inedite all’assistente alla regia Jordan Stone, alla montatrice Anne Goursaud e al nostro Dante Ferretti, che ha inizialmente collaborato al progetto. Per quanto concerne i miei nuovi progetti, al momento vorrei continuare a dedicarmi alla promozione di “A qualcuno piace l’horror”, un libro a cui tengo molto e che mi ha accompagnato per tre lunghi, bellissimi anni di lavoro. Il minimo che posso fare, con l’aiuto del fantastico staff della Leima, è dedicarmi con altrettanto impegno a promuoverlo nel migliore dei modi.

Stefano Coccia

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