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La rivoluzione è morta. Viva la rivoluzione! (Piccola storia della rivoluzione nel cinema )
Quando il cinema cominciò a muovere i suoi primi passi grande era il suo amore per il tema della rivoluzione. Oggi di quel grande amore resta davvero poco, forse solo il ricordo. Eppure l’inizio di quella storia d’amore fu travolgente
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7 anni agoon
Quando il cinema cominciò a muovere i suoi primi passi grande era il suo amore per il tema della rivoluzione. Oggi di quel grande amore resta davvero poco, forse solo il ricordo. Eppure l’inizio di quella storia d’amore fu travolgente.
È David Wark Griffith, uno dei padri del cinema, a iniziare il grande racconto della rivoluzione, realizzando nel 1924 America, un vero e proprio colossal per celebrare la rivoluzione statunitense. Il celebre e rispettato regista statunitense riceve ampio sostegno dal suo governo ma sta anche ben attento a non inimicarsi gli antichi nemici britannici, nel frattempo divenuti nuovamente solidi alleati. Il film fu pensato anche per scopi didattici, per tirar su una buona leva di cittadini consapevoli della propria storia ma non fu un grande successo, forse anche per la sua sceneggiatura, più attenta ai buoni rapporti diplomatici che alla fedele ricostruzione storica. D’altronde quando Griffith lo gira sono già passati quasi 150 anni dai fatti e i sentimenti e gli equilibri politici sono cambiati e il suo film ne risente.
Ben altro spessore, successo e gloria riceve Ottobre, il film che Eiseinstein, ispirandosi anche al romanzo di John Reed I 10 giorni che sconvolsero il mondo, realizza nel 1928 per raccontare l’epopea della rivoluzione sovietica. Anche in questo caso il regista subisce l’influenza del potere politico che gli impose di eliminare la presenza di Trotzky. Ma gli eventi raccontati questa volta sono vicinissimi, la loro presa è viva e permea ogni fotogramma della pellicola. È in questo film che Eiseinstein per la prima volta realizza la sua teoria del “montaggio produttivo” ovvero l’accostamento di due sequenze per produrre una ben determinata interpretazione politica da parte dello spettatore. Per il regista lettone Ottobre è il culmine di un percorso cinematografico e politico in cui la sperimentazione delle sue teorie sul montaggio, iniziata già con Sciopero! (1925) e La corazzata Potemkin (1925), procedeva di pari passo con la sua fede politica nella rivoluzione sovietica.
In realtà Eisenstein non aveva ancora esaurito la sua voglia di raccontare la rivoluzione e tra il 1931 e il 1932 si reca in Messico per raccontare la rivoluzione di quel paese che nel 1917 aveva realizzato la prima costituzione di stampo socialista. Il film si sarebbe dovuto chiamare Que viva Mexico!, ma le difficoltà produttive e le disgrazie politiche in cui era caduto in patria il regista non ne permisero mai l’uscita come previsto. Se ne ebbero solo delle versioni parziali a opera di altri registi, e un’edizione definitiva, che cercò di recuperare quanto più fedelmente possibile la sceneggiatura originale, si ebbe solo nel 1979 ad opera del regista sovietico Alexandrov. La rivoluzione messicana non ha smesso di esercitare il suo fascino per molto tempo ancora dopo la sua conclusione, portando alla realizzazione di grandi capolavori del cinema classico come Viva Zapata! (1952) di Elia Kazan da un soggetto di John Steinbeck, ma anche attirando l’attenzione di registi e sceneggiatori italiani e fecondando felicemente il genere degli spaghetti western. È il caso di Vamos a matar companeros (1970) di Sergio Corbucci e del più famoso Giù la testa (1971) di Sergio Leone. Anche se, a onor del vero, l’obiettivo principale del film di Leone, come anche di altri, per esempio Il mucchio selvaggio (1969) di Sam Peckinpah, non era quello di omaggiare o raccontare la rivoluzione messicana del 1910 quanto piuttosto di utilizzarla come sfondo narrativo in cui i suoi personaggi divenissero metafora della figura del rivoluzionario borghese occidentale, che in quegli anni diveniva protagonista delle lotte sociali. Infatti, il protagonista è un rivoluzionario irlandese di chiara impronta borghese ma che condivide un tratto di disperazione e vocazione alla sconfitta, esattamente come gli eroi più “proletari” del film di Peckinpah. I due film non tardarono a diventare icone dei gruppettari di quegli anni.
Anche le più antiche rivoluzioni borghesi hanno fornito materiali narrativi per la produzione cinematografica. È il caso di Cromwell (1970) di Ken Hughes che si pone in un’ottica prevalentemente descrittiva della rivoluzione inglese del XVII secolo, la quale portò alla destituzione e decapitazione di Carlo I di Stuart e alla formazione di un regime parlamentare (Il Commonwealth) guidato da Oliver Cromwell.
Molto più prolifica è stata la rivoluzione francese, che ha fatto germinare opere di diverso segno politico. Da quelle più conservatrici, come Danton (1983) del polacco Andrzej Wajda che punta a stigmatizzare la violenza rivoluzionaria, a quelle più entusiaste come La Marsigliese (1939) di Jean Renoir, passando per pellicole politicamente meno schierate come Il regno del terrore (1949) di Antony Mann, che utilizza piuttosto liberamente la vicenda storica per ambientare una racconto thriller. Tra le prime si annovera il cortometraggio statunitense, considerato perduto, Robespierre (1913) di Herbert Brenon.
L’ultima rivoluzione socialista in ordine di tempo è stata quella cubana, nel 1959, e la sua storia piena di eroi carismatici, sfide impossibili, vittorie esaltanti e brucianti sconfitte, è stata una fucina di suggestioni per il cinema, che ha testimoniato sempre passione e amore per essa. Non a caso appena vinta la rivoluzione a Cuba si fonda l’ ICAIC (Instituto Cubano del Arte e Industrias Cinematográficos) che raccoglie la partecipazioni di critici cinematografici come Georges Sadoul e registi del calibro di Agnes Varda e Jean-Luc Godard. Una delle prima coproduzioni dell’ICAIC è Soy Cuba (1964) del sovietico Kalatozov. Si tratta di un film di grande cura estetica e che proprio per questo fu accusato di essere un vacuo sfoggio manieristico che aveva sottovalutato gli aspetti politici della rivoluzione. Ma la politica nel film c’era, eccome, e anche dal punto di vista stilistico si è registrato un rimarchevole ripensamento: suoi cultori si dichiarano registi del calibro di Francis Ford Coppola e Martin Scorsese: quest’ultimo, nel documentario Soy Cuba – Il mammuth siberiano (2001) di Vicente Ferraz, ne tesse un elogio travolgente. Tra le ultime grandi produzioni c’è senz’altro il documentario di Oliver Stone Comandante del 2003, in cui sotto forma di colloquio privato con Fidel Castro si ripercorre la sua vita e la storia della rivoluzione cubana, come avviene anche nel seguito Looking for Fidel (2004), sempre di Stone, in cui si dà conto anche delle accuse delle opposizioni e dei rapporti delle ONG sulla situazione dei diritti umani. E non è certo da meno il mito del comandante Che Guevera a cui, ad esempio, Steven Soderbergh ha dedicato nel 2008 un dittico, Che – L’argentino e Che – Guerriglia, che ripercorre con enfasi e adesione la storia del mito del Che, conclusasi proprio con la rivoluzione fallita in Bolivia e la sua morte nel 1967. Ma ora che Fidel è morto e suo fratello Raul ha aperto il paese alle riforme capitalistiche e alla collaborazione con gli USA il potere di attrazione del mito cubano va declinando con decisione.
E se il mito cubano si è appena spento, ci sono altre rivoluzioni che da noi hanno smesso di esercitare attrazione già da molto tempo, come quelle asiatiche. Del Vietnam l’occidente se ne è interessato soprattutto durante la fase di resistenza all’invasione francese prima e statunitense poi, come ad esempio con il documentario collettivo Lontano dal Vietnam (1967) di Joris Ivens, Claude Lelouch, Agnes Varda, Jean-Luc Godard, William Klein, Chris Marker e Alain Resnais, ma non c’è stato interesse alla successiva creazione di una società socialista. Appena più fortunata è la rivoluzione cinese, a cui Joris Ivens dedica durante la fase di liberazione dall’occupazione giapponese il film I 400 milioni (1939), prodotto con fondi di attivisti statunitensi e sotto la stretta supervisione della censura cinese, il quale racconta della resistenza cinese e del modello di società che si stava edificando. Si potrebbe arrivare ad annoverare tra i film influenzati dal tema della rivoluzione cinese anche film come La cinese (1967) di Jean-Luc Godard che, con una sceneggiatura trasversale, si muove tra la critica all’infantilismo dei giovani rivoluzionari borghesi occidentali e le anticipazioni delle fortune che la rivoluzione culturale cinese avrà durante il 68 francese. Molto peggio è avvenuto con altre rivoluzioni asiatiche, come quella cambogiana che poteva produrre solo opere di condanna, come è infatti Urla dal silenzio (1984) di Roland Joffé, o quella nord-coreana, di cui non è pervenuto alcun film degno di attenzione (sotto tale categoria possiamo registrare il film comico The Interview (2004) di Evan Goldberg e Seth Rogen). Un caso a parte meriterebbe l’Iran, che di talenti e di grandi film ne ha prodotti tanti dopo la rivoluzione khomeynista, e si può anche affermare che ogni film iraniano racconta degli esiti di quella rivoluzione ma nessuno la affronta direttamente, come accade anche in Cina, dove il potere della censura vela il racconto cinematografico.
Per quanto riguarda le rivoluzioni africane, oltre a un certo distacco da parte della cinematografia mainstream occidentale, si assiste a una particolare distorsione dello sguardo che fa avvicinare l’attenzione dello spettatore alle vicende politiche più per le modalità con cui i popoli africani si sono liberati dal potere coloniale (è il caso, ad esempio, de La Battaglia di Algeri (1966) di Gillo Pontecorvo) che non per i contenuti del cambiamento, a eccezione del caso del Sudafrica, dove il tema dell’apartheid ci è molto più vicino, ma anche già ben digerito, basti pensare a film come Invictus (2009) di Clint Eastwood. Ma non mancano operazioni controcorrente, sebbene meno note, come il documentario di montaggio Capitaine Thomas Sankara (2012) di Christophe Cupelin, dedicato al leader del Burkina Faso, che è stato una speranza per tutti i paesi poveri africani sommersi dal debito verso gli ex stati coloniali.
Dunque, la situazione è questa: il mito socialista ha perso di attrattività dopo la caduta dell’URSS e le vistose correzioni di rotta della Cina, del Vietnam e di Cuba in direzione dell’economia capitalistica. Le conquiste parlamentari della Gran Bretagna non sono più in discussione, come anche quelle indipendentistiche degli Stati Uniti d’America. Semmai sono i valori della laicità, della libertà e dell’uguaglianza, sanciti dalla rivoluzione francese, che potrebbe essere messi in discussione nei prossimi anni, ma per il momento non sembra che i cineasti sentano il bisogno di tornare al mito fondativo del 1789. Dunque dobbiamo rassegnarci a un lungo periodo di attesa prima che il cinema torni a ragionare su trasformazioni della realtà che non siano le distopiche distruzioni della nostra società? Forse.
Ma in questi tempi di attese e fallimenti, di disinganni e abbattimenti, ci sarebbe una filmografia che potrebbe essere d’aiuto anche se non di conforto. Pensiamo a film ambientati nel periodo che va tra le illusioni suscitate dalle repubbliche napoleoniche fino alle delusioni causate dall’unità d’Italia. È il caso di Quanto è bello lu murire acciso (1975) di Ennio Lorenzini, che rievoca la tragica spedizione di Carlo Pisacane e rappresenta una critica dello spontaneismo con anche un esplicito richiamo alla vicenda boliviana del Che. Oppure Allonsanfan (1974) dei fratelli Taviani, in cui seppure con personaggi di fantasia si ripercorre un itinerario narrativo simile a quello del film di Lorenzini, dove però l’attenzione è posta sul riflusso post-68 e sul vicolo cieco rappresentato dalla strategia delle BR. Fino ad arrivare a Noi Credevamo (2010) di Mario Martone che, ambientato nel periodo pre-unitario, riflette sulle sconfitte e le delusioni di chi dedica la propria vita a una causa rivoluzionaria che, pur realizzandosi, non porta alla concretizzazione delle proprie aspirazioni. Ma più di tutti, è necessario rivedere San Michele aveva un gallo (1972), sempre dei fratelli Taviani. La sceneggiatura è ispirata al racconto di Tolstoj Il divino e l’umano e tratta della sconfitta, umana prima ancora che politica, dell’anarchico insurrezionalista Giulio Manieri. Ma la sua debacle definitiva non avviene a causa del suo nemico dichiarato, ovvero lo stato italiano, bensì a opera di una nuova leva di rivoluzionari: i marxisti che praticando il cosiddetto socialismo scientifico hanno mandato al macero la sua vita improntata all’affascinate ma velleitario socialismo utopistico. Ecco, forse i rivoluzionari del nostro tempo sono come l’utopista Giulio Manieri, e una rivoluzione non la faranno mai. Il cinema potrebbe attendere l’arrivo della prossima generazione per narrarne le gesta, oppure raccontare di questa fase di abbagli e arretramenti. E magari farlo in presa diretta, non cento anni dopo. E questa sarebbe la vera rivoluzione, almeno per il cinema.