Interviews
Daniele Ciprì: il mio Pontifex
In occasione della XXIIa edizione del Dorico International Film Fest abbiamo intervistato Daniele Ciprì sul suo ultimo lavoro: il docufilm “Pontifex”
Published
3 giorni agoon
Pontifex, l’ultimo docufilm di Daniele Ciprì, è un’opera molto originale nel panorama del cinema italiano, nella forma e nel contenuto. Un viaggio affascinante, accorato, filosoficamente molto profondo, nel mondo della fede e della spiritualità cristiana. Un film inaspettato da parte di un regista sempre provocatorio nei temi e nello stile. Per conoscere le motivazioni dietro un’opera del genere, abbiamo intervistato il suo autore, il sempre vulcanico e generoso Daniele Ciprì, al Dorico International Film Fest.
Alla XXIIa edizione del Dorico International Film Fest hai presentato il tuo ultimo lavoro, Pontifex, che cosa ti attirava di più di questo racconto?
Quando mi è arrivata la proposta, ero molto diffidente. Mi sono detto: come posso fare un lavoro con il Vaticano, considerando il mio percorso passato? Essendo, però, una persona curiosa, sono andato ad ascoltare. Ho fatto una lunga conversazione con Armando Colasanti, che mi avrebbe accompagnato, con i suoi testi, in questo percorso. È un critico d’arte e uno scrittore, una figura un po’ istituzionale. Personalmente provavo grande interesse all’idea di conoscere papa Francesco, anche se stava già molto male. Mi procurano un incontro con Mons. Fisichella e facciamo una prima conversazione. Quello che diceva, mi ha preso talmente tanto che mi sono convinto di poter creare un percorso attraverso le sue parole. Nell’idea di Pontifex, mentre lui parla, costruisco visivamente quello che ha immaginato, un mondo per raccontare qualcosa di diverso, che mi ha fatto riflettere. Prima ancora che allo spettatore, penso a me: se devo lavorare a un progetto, me ne devo innamorare, devo viverlo, altrimenti non lo faccio. Se non hai la passione, l’amore, lo farai male.
E cosa ti ha conquistato di Pontifex?
Molte volte in un film faccio solo il direttore della fotografia. Quando lavoro così con i miei colleghi, cerco di catturare l’immaginario altrui e, per questa caratteristica, capita mi commissionino dei prodotti. Questa proposta era particolarmente originale. L’ho accettata perché è un viaggio che ho fatto con me stesso, cercando di riflettere su quello che mi sta succedendo nella vita. Mons. Fisichella è una persona che mi ha catturato in modo meraviglioso. Da lì mi sono convinto a fare questo film documentario, in cui percorro un ponte tra papa Francesco e il suo successore. Non capita spesso di fare un lavoro che induce così tanto alla riflessione. Bisognerebbe accadesse più spesso, soprattutto in un periodo del genere.
Pontifex
Che risposta ti sei dato, perché quest’opera è stata commissionata proprio a te, che hai un curriculum anche abbastanza eretico?
Un’artista bisogna provocarlo, per fargli fare cose nuove. E loro sono stati molto bravi perché non mi hanno mai imposto nulla. Sapevano tutto di me, eppure mi hanno scelto, senza mettermi in prova. Certo, sicuramente qualche timore ce l’avevano. Da un punto vista artistico e cinematografico, va detto che non ho mai fatto cose brutte. Per Totò che visse due volte sono stato processato, ma ho vinto, con un film che è entrato nella storia. Io raccontavo l’umanità, nel bene e nel male. Oggi, basta aprire TikTok e vedere una mostruosità incredibile. Cinico Tv è niente in confronto a quello che c’è oggi sui social. Quindi perché mi hanno scelto? Ma proprio per quel passato e, secondo me, hanno avuto ragione. Perché mi hanno, intanto, guarito. Perché fare un percorso del genere ti aiuta tantissimo, anche nella riflessione sul cinema. Una cosa che mi ha impressionato molto, e mi ha fatto pensare, è quando Mons. Fisichella nel film dice: quanti scaffali di biblioteche avremmo avuto vuoti senza la Chiesa? Quante grandi opere architettoniche, pittoriche e letterarie non avremmo mai visto? La Chiesa ha dato tantissimo all’umanità. Quante opere musicali vengono da quell’ispirazione? Quindi, per me, questo è il viaggio di Pontifex. Non è credere o non credere. Quello conta, ma relativamente, per me non importa quanto il fatto di continuare a creare opere d’arte.
Qual è il tuo rapporto con la fede cristiana e Pontifex lo ha in qualche modo influenzato?
Non sono un praticante, ma non posso dire di non essere cattolico. Ho fatto la prima Comunione, vengo da una famiglia religiosa, ma, al di là della fede, m’interessava questo viaggio, un film per credenti e non credenti. Ci sono tanti materiali dentro, la Settimana Incom, l’Istituto Luce e poi gli attori che, da un fondo nero, materializzano quello che ho immaginato. Mi sono sentito come nel teatro dei pupi, io che amo tantissimo il cunto. Così li ho metaforicamente gestiti, raccontando questo percorso attraverso gli input di Mons. Fisichella e i testi, in verità piuttosto criptici, di Armando Colasanti.
Totò che visse due volte
Un progetto che ti ha conquistato in divenire, quindi.
Mi succede molto spesso così, anche per i precedenti film. È stato il figlio, per esempio, non lo volevo fare. Roberto Alajmo mi aveva mandato il suo romanzo e io non riuscivo a decidermi. Erano passati 8 o 9 mesi e a un certo punto mi è venuta l’idea di come raccontare È stato il figlio, mentre ero alle Poste: c’erano tante persone in fila che prendevano il loro numero e ho capito quale poteva essere la chiave narrativa. Ho chiamato la produzione e ho detto lo faccio, anche perché mi hanno dato la possibilità di essere libero e scrivere un trattamento diverso dal soggetto originale. La stessa cosa è con tutti i miei lavori. Anche per La buca è stato così. Io sono caduto in una buca. L’immaginario cinematografico è sempre pieno di quello che succede durante la giornata. Poi lo amplifichi, lo esageri, lo rendi grottesco, però è sempre la realtà la sua origine.
Se poi riuscito a incontrare papa Francesco?
Purtroppo papa Francesco no, ma il precedente sì, in un periodo molto brutto della mia vita, durante una grave malattia di mio figlio. Alcune dinamiche che si vedono in Pontifex le ho vissute. Conosco quei dolori da padre.
Colpisce molto, nelle immagini di repertorio che hai montato, l’affetto popolare che traspare nei confronti di papa Francesco, il contatto fisico reciprocamente cercato tra lui e le persone.
Quando vedevo i materiali di repertorio era qualcosa che saltava agli occhi: questo rapporto di fedeltà bellissimo con papa Francesco, ne rimanevo incantato. Mi emozionava vedere questo bisogno reciproco. Le inquadrature delle mani, gli abbracci, volevo mostrare la forza di quel contatto.
Pontifex
Qual è la cifra stilistica di Pontifex, così lontano dalla rarefazione visiva e dallo sguardo sardonico di altre tue opere, a partire da Cinico Tv?
Già raccontando la capitale in Roma, Santa e Dannata, insieme a Roberto D’Agostino e Marco Giusti, mi sono dovuto tarare con le bellezze di quella città, anche quelle santificate. Sentivo di non poter essere cinico secondo il mio stile, ho contaminato, mi sono mantenuto molto sobrio. Perché, ho detto, non importa avere una cifra riconoscibile, ma mostrare una riflessione. La stessa cosa, ancora più profonda, è avvenuta per Pontifex. Ho accettato Roma, Santa e Dannata non per il tema, ma perché l’ho fatto con due persone che mi hanno guidato in un mondo che non conoscevo. Non dovevo costruire visivamente chissà che, però mi sono divertito e mi sono fatto una grande cultura.
Tornando a Pontifex, ci sono i testi di Armando Colasanti che fai recitare a Rossella Brescia, Cesare Bocci e Gianni Rosato, l’intervista a Mons. Fisichella e diversi filmati con protagonista papa Francesco.
È un film di parole. È il film più parlato che abbia mai fatto. Ho dovuto diminuire, dosare, ma sapevo benissimo quello che desideravo. Ovviamente ne abbiamo discusso, ma la direzione era quella data da Mons. Fisichella. Io volevo arrivare al suo messaggio di speranza, cui si contrappongono figure come il mondo e il suicida, utilizzando un discorso quasi teatrale, in cui la parola fa tutto. A me, quel che è mistero, dà speranza. È qualcosa di centrale nelle riflessioni sulla vita. Essendo un pessimista, la speranza è proprio il pessimismo che arriva. Mi è capitato anche nel lavoro, è sempre stato così. Quando arrivi al fondo… ma non ho perso mai la speranza, perché, altrimenti, non avrei fatto nulla.
Pontifex
Com’è tipico del tuo cinema, però, hai lavorato molto sulle immagini, anche con format diversi.
Quella è la mia condanna e il mio desiderio. Io voglio fare film con tutti i formati del mondo. A me piace proprio utilizzare tutta quella materia che ha dato forma al cinema. Benché Pontifex sia un documentario, ho cercato, in alcune parti, di avere una dimensione astratta, che fosse riflesso spirituale di quel viaggio interiore che facevo attraverso le parole di Mons. Fisichella e i testi di Armando Colasanti.
Nel film appare diverse volte la metafora della porta che si apre, anche perché siamo in anno giubilare, un altro dei punti di riferimento di Pontifex. Mentre giravi pensavi mai a un film come The Tree of Life di Terrence Malick?
Visivamente, la prima cosa che è nata di Pontifex è stata proprio l’immagine di una porta. Una porta ai confini della realtà materiale che volevo varcare, come una dimensione che mi separava dall’immaginario. È qualcosa dentro di me. L’anno scorso ho fatto uno spettacolo in teatro e dicevo ai miei attori che sul palcoscenico c’è una riga oltre la quale parte la quarta dimensione. Ho sempre avuto un’ossessione, una passione, per queste soglie di passaggio. Io non ho paura di queste cose, mentre altri miei colleghi temono di uscire dal reale, io, invece, me ne vado ovunque. Sicuramente c’è tutto un cinema che mi ha dato questi stimoli. Ultimamente, per esempio, quello di Christopher Nolan.
Pontifex