In The Great Flood vediamo una giovane madre che fatica a comunicare con il proprio figlio. Nel frattempo, intorno a sé aumenta l’inondazione: l’acqua entra in casa, sommergendo gran parte della città e dando inizio a una lunga lotta per la sopravvivenza.
The Great Flood: il genere catastrofico come analisi del nostro ambiente
Film coreano dalle tinte catastrofiche, genere cinematografico che all’inizio degli anni 2000 faceva da padrone grazie alle opere di Roland Emmerich, come The Day After Tomorrow e 2012.
Un tempo questo genere aveva grande successo al botteghino perché esorcizzava lo spettatore attraverso la catarsi della spettacolarizzazione dei momenti più intensi, oltre ad avvertilo sulle possibili cause del riscaldamento globale.
Oggi quel successo si è affievolito: la fantasia ha superato la realtà e il pubblico fatica a metabolizzare questi progetti, soprattutto dopo gli ultimi episodi realmente avvenuti in Paesi come la Spagna e l’Italia.
In questo contesto arriva dalla Corea The Great Flood, approdato direttamente su Netflix, come progetto pensato esclusivamente per la piattaforma, che riprende pienamente il genere e lo attualizza più che mai.
Un film di tecnicismi
Dopo due anni di post-produzione, il film rappresenta la sesta opera da regista per Kim Byung-woo, che si cimenta per la prima volta con il disaster movie, raccontando prima di tutto una storia umana. A reggere il film è la lotta costante di una madre per la salvaguardia del figlio, in una corsa contro il tempo.
Un incipit che si rifà molto ai film in territorio coreano sul tema catastrofico: basti pensare al celebre Train to Busan (2016), che riprende il tema della genitorialità in un contesto apocalittico e intimo.
Kim mostra diversi tecnicismi, come interessanti brevi piani sequenza in più punti, nel tentativo di immergere lo spettatore nel racconto. Ci riesce solo a tratti, poiché gli effetti speciali non sono sempre ben amalgamati con l’intento registico e, in alcuni casi, risultano poco convincenti.
The Great Flood
Una sceneggiatura troppo confusa
Alcuni eccessi emergono anche nella sceneggiatura, che inserisce troppi elementi tra loro dissonanti: intelligenza artificiale, trans-umanesimo, loop temporali, simulazione virtuale e anche “il giorno della marmotta”.
La seconda parte del film risulta decisamente meno interessante e meno concettuale rispetto a quanto vorrebbe apparire, rendendo il risultato finale non del tutto convincente.
Altro fattore insidioso è l’inserimento della componente action, elemento ben gestito tecnicamente da Kim Byung-Woo, ma che risulta anch’esso fuori posto.
È evidente come il regista volesse realizzare un blockbuster in grado di rivaleggiare con quelli mainstream americani, affrontando tematiche attuali. Tuttavia il film finisce per diventare un accumulo di idee, portate a compimento solo in parte.
La maternità come forza cinematografica
Ciò che funziona maggiormente è la tematica della maternità, in costante conflitto non solo con la “madre natura”, che si riversa sull’uomo come conseguenza delle sue azioni sull’ambiente, ma anche in contrasto con il concetto di trans-umanesimo e con l’intelligenza artificiale, incapaci di superare la forza dell’amore materno.
Se il film si fosse focalizzato maggiormente su un determinato aspetto, integrando maggiormente il ruolo materno, forse ne avrebbe giovato ancora di più, oltre lo spettatore stesso.
The Great Flood si rivela infine un blockbuster con spunti interessanti ma non sempre ben bilanciati, capace comunque di offrire uno spettacolo intrattenente, perfetto per una serata di svago. Kim ha ancora strada da fare per raggiungere una piena maturità autoriale, ma dimostra un discreto mestiere registico.