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Nadir Taji: l’altro lato della “Festa in famiglia”

Intervista a Nadir Taji, vincitore della XXIIa edizione del Dorico International Film Fest

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Nadir Taji, con Festa in famiglia, vincitore della XXIIa edizione del Dorico International Film Fest, mette insieme tradizione e modernità, le storture dell’una e dell’altra, nell’ambito ristretto di quel momento di coabitazione spesso forzata che è la festa in famiglia. Con passo registicamente misurato, si parla di violenza, molestie sessuali, incompatibilità ambientali e  caratteriali, eppure la macchina da presa procede senza eccessi o ricercati effetti.

Per parlare del lato rimosso dietro Festa in famiglia, e i cortocircuiti culturali che mette in scena, al Dorico International Film Fest abbiamo intervistato in esclusiva il giovanissimo Nadir Taji.

Come nasce il progetto e l’idea di Festa in famiglia?

Festa in famiglia nasce da situazioni personali che mi toccano molto, come la questione educativa. Ho avuto la possibilità, direi la fortuna, di vivere tra due mondi: vedere l’educazione araba, in questo caso marocchina, della mia famiglia, scontrarsi con la mia crescita all’interno di un paese del nord Italia. Questo creava molte fratture, soprattutto nel rapporto con mio padre. La sua provenienza, il suo modo d’interpretare il mondo, a volte confliggevano con la maniera in cui io provavo a interpretare il mio. Questa è stata la scintilla che mi ha spinto a fare Festa in famiglia, centrato sul rapporto tra genitori e figli e il loro rapporto educativo, che non è, semplicemente, dire cosa si fa o non si fa, ma il modo di dirlo che, in alcuni casi, sfocia solo nel rimprovero. Mi sono detto che un costante rimprovero, senza una piena empatia, potrebbe portare a conseguenze gravi. Quando manca l’affetto parentale nell’educare, si creano dei cortocircuiti che possono anche portare al gesto estremo che compie il ragazzo all’interno della storia.

Seppur in un contesto culturale completamente diverso, Festa in famiglia mi ha fatto pensare a un film come Festen di Thomas Vintenberg. È qualcosa che avevi presente o tutte le famiglie, nel cinema e non solo, hanno un loro centro infernale?

A Festen, devo dire, ci ho pensato alla fine, mi aveva molto colpito. Mi sono particolarmente piaciuti i film di Dogma 95, perlomeno i primi, perché avevano un approccio molto viscerale, anche grezzo, usciva proprio fuori un fuoco. In realtà, il titolo del mio corto è arrivato all’ultima riga della sceneggiatura, al momento delle botte, mi ha fatto pensare: questa è una festa in famiglia, una cosa che mi è capitato di vedere più volte. La festività è l’occasione dell’incontro familiare e, ogni volta, viene fuori il conflitto. Perché, paradossalmente, è dove ci si dovrebbe sentire più a proprio agio, anche di lasciar uscire fuori i propri demoni: non per forza il male, ma la sincerità. E la sincerità non necessariamente coincide con cose gradevoli e rassicuranti, secondo me.

Immagini di violenza sono strategicamente all’inizio, al centro e alla fine del film. Cosa rappresenta per te questo elemento?

La violenza è un elemento che mi affascina molto. Diventa una domanda che mi pongo, sul modo in cui consumiamo le immagini attraverso i media. L’anestetizzazione che ormai proviamo di fronte a queste, la maniera in cui diventiamo insensibili, usufruendone in maniera continua. Ho riflettuto molto su come mettere in scena la violenza, come creare una connessione con lo spettatore, utilizzandola con rispetto delle persone che la subiscono. Per esempio, nei tre momenti in cui questa accade, il primo è mostrato inizialmente fuori campo; nel secondo è in campo, è quella che lo spettatore si aspetta, il momento dell’“educazione” di questo ragazzo; l’ultima è quella ancora più privata, tra padre e figlio, non la vediamo, perché è una loro questione. È un ragionamento che ho fatto, per percepire che una violenza esiste, penso debba essere calibrata, centellinata, perché mostrarla totalmente toglie potenza.

La molestia verso una ragazzina è il motore narrativo del film, elemento trattato con grande raffinatezza: non si tratta di un mostro sconosciuto che ti aggredisce di notte, ma un parente alla luce del sole nel bel mezzo di una festa di famiglia. Come hai lavorato su quest’idea e la sua messinscena?

Ho faticato molto e ne ho avuto paura, onestamente, perché è un terreno scivoloso. La domanda è: quale diritto ho di mettere in scena una cosa di questo genere? Ho cercato di farlo nel modo più sobrio possibile, senza sfruttare la questione. Una possibilità narrativa poteva essere quella di stare col punto di vista della ragazzina tutto il tempo, però la percepivo come una cosa disonesta, un andare a forzare l’empatia di chi guarda, sfruttando un tema di cui non posso conoscere tutti gli aspetti, soprattutto la sensazione che può lasciare addosso a una persona. Per questo abbiamo voluto che il tema della molestia alla ragazzina fosse l’incipit, per concentrarci su ciò che pensavamo di poter trattare meglio, ovvero l’educazione e come questa avviene all’interno di un contesto. Ho trattato la questione come se fossi uno di quei parenti lì a osservare gli eventi, andando dove la palla infuocata stava girando.

Durante la proiezione del film al Dorico International Film Fest, abbiamo sentito il pubblico ridere fragorosamente durante la (drammatica) scena finale. È una reazione che ti aspettavi?

Sì, io sono sempre per l’imparzialità nella narrazione, mai per la presa in giro dei personaggi, però nel film c’è un’ironia che, in maniera abbastanza spontanea, è venuta fuori durante la scrittura e anche la realizzazione, perché ci sono dei piccoli aspetti, contraddizioni, che producono un senso del grottesco. Questo accade effettivamente nella scena del finale, una di quelle che ci siamo divertiti di più a scrivere. In realtà, è stata una delle prime immagini del corto che ci è venuta in mente; ci faceva ridere questo furgone che si allontanava e, al suo interno, accadeva qualcosa che non potevamo comprendere fino in fondo. Festa in famiglia è stato proiettato per la prima volta alla Mostra del Cinema di Venezia e lì, per esempio, nessuno ha riso. È una cosa che varia a seconda del luogo dove si vede, della predisposizione mentale che si fa il pubblico di fronte alla storia.

Lo sgozzamento iniziale dell’animale è come un rito, la festa in famiglia è come un rito, ma poi arriva il trauma, la crepa, e da immagini di vita tradizionali passiamo al porno via internet che innesca il conflitto: Festa in famiglia parla anche di uno scarto e di un conflitto generazionale?

Sì, oltre che generazionale, culturale, nel senso che c’è anche una riflessione su un modo di vivere che non sia prettamente occidentale. La convinzione che ci sia uno scarto, un giudizio con cui si guarda queste persone, il loro modo di affrontare la tradizione. Una cosa tipica di noi occidentali, mi ci metto anch’io. Quel cellulare da cui passa il porno è come fosse il segno del contatto diretto con il resto del mondo. Non c’è inconsapevolezza di come si evolve la società intorno a loro. Il telefono è correlativo oggettivo di un passaggio, dove c’è una tradizione molto forte che si scontra con uno strumento che racchiude 200 anni di sviluppo e cambiamento culturale. Quindi tu vedi gli abiti tradizionali e il porno sul cellulare. Lì c’è il cortocircuito. La violenza, la molestia, le botte nascono anche perché questi personaggi sentono di avere uno scarto generazionale e culturale, ma, forse, faticano ad ammetterselo.

In Festa in famiglia c’è anche il tema della disabilità, che rimante un po’ silente, sullo sfondo. Cosa hai voluto mettere in questa presenza?

Per me ha un significato molto personale, perché la persona che si vede nel film è mio fratello. Il tema della disabilità è qualcosa che ho vissuto profondamente nel corso della mia vita. Penso che potesse aiutare, all’interno della storia, a non dare un giudizio troppo negativo sui personaggi, a comprenderli meglio come persone, con le proprie sfaccettature. È successo anche a me, per esempio: magari mio padre reagiva in un determinato modo, creando frizioni con me, ma poi si prendeva tutta la cura del mondo per mio fratello e lì mi dicevo: perché il mio giudizio deve essere così netto, perché devo condannare una persona che, nonostante tutto, dimostra amore? Nella famiglia del film c’è questo piccolo filo rosso che lega a quella persona in carrozzina, anche il molestatore, anche il padre che lo picchia. Ci sono tanti conflitti tra i personaggi, ma lì c’è un elemento di purezza che è estraneo a ciò che accade nella vicenda. Questo credo dia un’umanità a tutti, è una cosa a cui tenevo. Detto questo, la mia famiglia mi ha aiutato tanto nella lavorazione del cortometraggio. Molti degli attori di Festa in famiglia ne fanno parte, nonostante il tema fosse difficile e spinoso.

Che significato ha avuto per te questo Premio in una manifestazione così importante come il Dorico International Film Fest?

Mi ha sorpreso e mi ha fatto molto piacere, perché vuol dire che siamo riusciti a costruire un canale di comunicazione con Festa in famiglia. Una cosa a cui tengo è che i miei lavori non solo facciano riflettere, ma siano anche capaci d’intrattenere. Non vorrei mai chiudermi in una nicchia, ma mantenere un’identità con un film che incuriosisca il pubblico, lo faccia drizzare sulla sedia, lo tenga in tensione, che gli possa dare un tema anche complesso, ma in maniera fruibile.

A quali nuovi progetti stai lavorando?

Adesso stiamo postproducendo il mio corto di diploma al Centro Sperimentale, si chiamerà Mama, Finek? ovvero Mamma, dove sei? Il cortometraggio parla di un bambino che assiste a una violenta lite tra i genitori, dopo la quale la madre scappa di casa e minaccia un gesto estremo. Il bambino decide di fuggire dal padre che non vuole andare ad aiutare la madre e spera, in questo modo, di salvarla. La famiglia rimane ancora il centro dei miei interessi.

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