FESTIVAL DI CINEMA
RIDF 2025. I linguaggi del cinema documentario
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3 giorni agoon
“Chi possiede il senso del documentario possiede il senso del cinema” sentenziava Pasinetti, come a intravedere nell’estetica del reale un modo di guardare ancor prima che uno stringente genere o un cinema di serie B. Allora si parla di linguaggio – che cos’è il documentario – a proposito di una disciplina per sua stesa etimologia bugiarda: “documentario”, dal latino “documentum”, prova, esempio, dimostrazione. Ma le immagini non possono pronunciare la verità, protestava Platone nel Libro X della Repubblica quando sprigionava tutta la sua iconofobia verso le prime arti visive.
È un dibattito senza via d’uscita che continua anche oggi, come se il bisogno di dare un nome alle cose, alle immagini che produciamo o fruiamo sia sempre più impellente.
Un confronto tra documentaristi anonimi
Così in questi giorni in un evento sensibile alle forme del reale come il Rome International Documentary Festival (RIDF) si è tenuto un incontro aperto a pubblico e cineasti sui linguaggi del documentario. A moderare Giusy Buccheri e Michele Citoni, documentaristi anonimi come amano definirsi loro, che si sono confrontati con alcuni degli autori in concorso al RIDF.
“Oggi abbiamo pensato di affrontare un aspetto formale – introduce Giusy Buccheri – come i molteplici linguaggi del documentario. È un tema nato dall’ultimo incontro dei documentaristi anonimi, eravamo attorno a un tavolo con due bravissimi montatori, Beppe Leonetti e Alessandro Aniballi e dicevano che nel cinema documentario non si può più mettere un’intervista. Questa cosa ha scatenato un po’ il dibattito tra di noi e ci siamo fatti qualche domanda.
Quando si parla di aspetti formali ed estetici nel documentario si parla sempre di questioni etiche, perché i due temi non sono mai disgiunti. Ci siamo fatti questa domanda: non sarà che il cinema documentario stia un po’ inseguendo degli stilemi che sono tipici del cinema di finzione? Non stiamo forse correndo dietro al cinema di finzione, sentendoci legittimati solo quando usiamo i suoi stilemi?”
La domanda di Buccheri ha dato il là alla conversazione, con Antonio Paoletti, regista del corto dallo spirito epistolare When I Came To Your Door, che è stato il primo a rispondere. “Il mio film racconta una storia di demolizioni e sfratti nella città di Addis Abeba, dando voce a una storia reale tramite una lettera. Io ho un background di architetto e in quel momento stavo lavorando lì su progetti e ricerche sull’housing sociale. Mi avevano proposto di intervistare professori ed esperti ad Addis Abeba, ma io non volevo avere le cosiddette talking heads nel mio film perché non mi interessava avere esperti che dessero un’interpretazione con una certa direzione”.
When I Came To Your Door (2024) di Antonio Paoletti
“Volevo in realtà raccontare dal punto di vista dei residenti – ha continuato Paoletti – e quando sono andato lì mi sono rimbattuto in una lettera che era realmente in uno di questi quartieri demoliti e ho pensato ‘questo è oro, questa sarà la storia’. Io volevo raccontare un tema complesso dal punto di vista sociale e politico, ma facendo qualcosa che non fosse un tipico reportage giornalistico”.
Il potere estetizzante del documentario
Accodandosi ad Antonio Paoletti, è intervenuto anche Francesco Rubattu, co-regista assieme a Roberta Palmieri del corto Devotee; storia di Manuela, una donna paraplegica che inizia a chattare su Instagram con un profilo anonimo che ha una parafilia, cioè un’attrazione sessuale per la disabilità. “Il nostro non è un documentario osservativo, non è un lavoro con le talking heads ma un documentario ricostruito: le uniche cose vere che vediamo sono i messaggi che si scrivono, tutto il resto è stage. Abbiamo ricostruito le situazioni semplici – Manuela che lavora, che parla con le amiche – che però ci servivano per raccontare la storia. Nel nostro documentario – continua Rubattu – eravamo obbligati a ricreare delle situazioni visivamente catchy e io sono dell’idea che una cosa se deve essere raccontata prima bisogna farlo tramite l’immagine”.
Una concezione totalmente a favore del documentario come racconto di sguardo quella di Francesco Rubattu che, interrogato da Giusy Buccheri sulla cupa messinscena del suo corto Devotee, ha detto: “noi abbiamo fatto una costruzione dei posti frequentati da Manuela per capire come raccontare lei, ma anche gli spazi in cui si muoveva. Per esempio, c’è una scena dove si vede Manuela in controluce, buia nel suo studio mentre fa un test a un cane, e rivedendola abbiamo capito che quest’immagine da sola stava raccontando tutto: lei è una veterinaria, non ha un confronto con gli umani ma solo con gli animali. Quindi anche in base a questo abbiamo voluto dare una certa freddezza alle immagini”.
Devotee (2025) di Francesco Rubattu e Roberta Palmieri
Talking heads: sì o no?
Dal dibattito sulle talking heads al gusto della messinscena per ritornare al discorso sulle interviste. Dopo il regista di Devotee ha preso la parola anche Renato Chiocca, autore del lungo I diari della felicità assieme a Claudia Mollese e Davide Barletti.
“Il documentario si nutre del passato – ha premesso Chiocca – e c’è un film documentario bellissimo di Gianni Amelio del 1997 dal titolo Non è finita la pace, cioè la guerra in cui il regista raccoglie per un’ora le voci dei bambini a Sarajevo nel 1996 che raccontavano la loro esperienza. L’unica costante nel film era l’inquadratura con un mezzo busto, la faccia al centro che guardava dritto e raccontava. Incredibile, una tensione cinematografica data da parole, occhi, vista, silenzi eppure era talking heads quello”.
Poi Chiocca non manca di riferirsi a “un grande prototipo del racconto collettivo” come Comizi d’amore di Pasolini per arrivare alle forme del suo lungometraggio I diari della felicità.
“Il linguaggio del nostro film è stato il frutto del metodo stesso che abbiamo cercato di poter attuare, metodo già sperimentato da Davide Barletti per un altro film che si chiama Nulla di sbagliato. Questo è un progetto di cinema per la scuola, dove abbiamo cercato di raccontare l’emotività di una generazione poco raccontata dal linguaggio delle immagini, quella dei 12-13 anni.
Per cercare di conquistar la loro fiducia abbiamo voluto creare un dialogo attraverso una scrittura di diari su una carta, distribuendo 125 diari a 5 classi di una seconda media di tre istituti della Crescita Salentina Calimera, Caprarica di Lecce e Martignano. In ogni diario c’erano capitoli sulle agenzie sociali: prima la scuola, poi la casa, poi gli amici.
I diari della felicità (2025) di Davide Barletti, Renato Chiocca, Claudia Mollese
Dopo un lavoro progressivo di scrittura per 3/4 mesi abbiamo coinvolto un po’ tra chi si è proposto, un po’ tra chi ci aveva affascinato di più in un laboratorio pomeridiano di 20 ragazzi a cui abbiamo distribuito delle piccole telecamere”.
Il cinema del reale come ricerca di un gesto libero
Chiocca ha poi dato la parola a Claudia Mollese, che si è espressa anzitutto sull’odierna dimensione del cinema documentario. “Io non credo di avere un problema con le interviste o con quello che oggi può considerarsi un cinema estetizzante – ha detto – penso appunto che ci sia una dimensione del cinema, senza neanche definirlo documentario, quasi come linguaggio, dove ognuno inizia a parlare poi si prova a cercare la propria lingua in qualche modo e cerca una grammatica. In questo progetto del film, poi, dopo aver affidato i diari abbiamo dato ai ragazzi queste telecamere Osmo per spingerli ad andare alla ricerca di un gesto libero, perché sicuramente sono sensibilizzati al mondo delle immagini, ma sono quelle di TikTok o del mondo dei vlog. Quindi attraverso questo strumento abbiamo voluto ricercare delle immagini nuove”
Tra le famigerate teste parlanti e il reale ai tempi di TikTok, l’incontro condotto da Buccheri e Citoni al RIDF ha sollevato tanti spunti di riflessione. Che cos’è il reale, una forma oppure un metodo con le sue regole? Che futuro ha il documentario in questo odierno impero di sguardi indicizzati nei meandri digitali? Al cinema e alle immagini del futuro l’ardua sentenza.