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‘La banda dei ratti’: una storia imperfetta, ma con del potenziale

Un racconto dal ritmo a volte troppo sostenuto.

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La banda dei ratti è un episodio spin-off prodotto da Netflix, che approfondisce i personaggi appartenenti all’omonimo gruppo di fuorilegge. I personaggi sono legati alla serie principale di The Witcher, attualmente alla quarta stagione. 

La banda dei ratti: l’analisi del prologo 

Il prologo comincia da subito con una scelta rivedibile. Un VoiceOver di Cirilla, uno dei personaggi di punta della serie principale interpretato da Freya Allan, non aggiunge nulla ad una sequenza già di per se efficace con la forza delle sue immagini. Ad accompagnare quest’ultime sarebbe bastato l’agghiacciante monologo di Leo Bonhart. Grazie all’ottima interpretazione di Sharlto Copley, sarebbe stato un accompagnamento più che degno delle strazianti immagini del prologo. 

Dire tanto in poco tempo 

La banda dei ratti ha tanto da dire, ma poco tempo per farlo. Nello spazio a disposizione, La banda dei ratti cerca di fornire abbastanza coordinate narrative per ogni membro del gruppo. Nel complesso, la narrazione ha dei tempi molto accelerati, che forze avrebbero tratto beneficio da un po’ più di respiro.  

Quando l’emozione è forzata

La fretta espositiva penalizza il racconto in termini di forza visuale. Si vuole mostrare tanto dei personaggi, rischiando però di appesantire la narrazione e lasciare cosi che i picchi emotivi di quest’ultima siano relegati a porzioni strutturali ben più esigue di quanto sarebbe necessario. 

Il risultato è quindi una scena che dovrebbe scuotere, ma non lo fa. L’impatto emotivo, infatti, non è mai nella singola scena, ma è il risultato di una costruzione attraverso più inquadrature, che creano nello spettatore una memoria emotiva che poi risuona con ciò che il regista, ad un certo punto, decide di mostrare sullo schermo. Per ottenere quest’effetto però, c’è bisogno della giusta preparazione e dei giusti tempi, cosa che qui non sempre si verifica. 

La banda dei ratti: un montaggio caotico, e non sempre efficace

Nell’esposizione, cosi come nelle sequenze più movimentate, il montaggio de La banda dei ratti predilige una frammentazione a volte eccessiva. Ed è strano, perché in alcuni sporadici momenti la regia sembra essere capace di movimenti armoniosi per descrivere luoghi ed azioni, ma non sembra sapere come farne tesoro per quando serve davvero. 

I tempi ristretti de La banda dei ratti, inoltre, influenzano lo sviluppo dei movimenti di macchina. Il movimento sull’asse viene interrotto da tagli brutali che non fanno altro che anticipare l’inquadratura a cui  saremmo arrivati seguendo naturalmente il movimento stesso. In questi casi, un più tradizionale raccordo sull’asse sarebbe stata una scelta più efficace.  

La perdita di una possibilità visiva 

La scelta di voler frammentare ad ogni costo lo spazio scenico non è opinabile solo per le sezioni più propriamente espositive. Non bisogna dimenticare infatti che, nella serie principale, c’erano state memorabili sequenze d’azione girate con uno stile fedele alla strategia di ripresa dell’omonima saga videoludica. 

The Witcher, oltre ai libri originali, da il nome anche ad una serie di videogiochi in terza persona. In questo genere di giochi, la telecamera segue il personaggio muovendosi a ridosso delle sue spalle, e senza stacchi. 

Nella serie principale, dunque, la regia ha provato ad adattarsi a questo stilema, producendo risultati interessanti.  La banda dei ratti compie un passo indietro da questo punto di vista, e preferisce affidarsi ad una grammatica più spiccatamente cinematografica. Questo, qualitativamente parlando è un peccato. Mantenere, pur senza esagerare, il legame formale con il videogioco avrebbe potuto dotare l’opera di una interessante soluzione visiva.

Come ci insegnano le sperimentazioni del videogioco, la concitazione può essere espressa anche con un caotico movimento di corpi nello spazio. In questo modo, la macchina da presa, pur con il suo movimento fluido, si imbeve di quel caos trovato altrove nello spazio scenico. 

Una bellezza fine a se stessa 

La fotografia è l’aspetto più carente. La fotografia dovrebbe essere una parte del linguaggio cinematografico, uno strumento che aggiunge un ulteriore livello di significato all’immagine. Ne La banda dei ratti, la fotografia viene ridotta ad un mero orpello estetico: corposo, splendidamente eseguito, ma nel complesso sprecato. 

La banda dei ratti: un potenziale che si intravede

Ci sono ottime intuizioni, qua e là, nel montaggio, nei tempi comici, ed in alcune soluzioni visive.  La banda dei ratti è una storia che parla di demoni del passato, e di quanto sia difficile superarli. Mairzee Almas veicola questo tema attraverso delle metafore visive che sono ben inserite nel racconto e decisamente d’impatto. 

È apprezzabile, inoltre, l’idea di mostrare un mondo fantasy dalle tinte scure. Nel mondo che La banda dei ratti ci mostra non ci sono  eroi valorosi, ne predestinati, ma oscurità, sopravvivenza e predizione. Ci viene mostrato un mondo in cui la vera missione è non perdere se stessi. 

Anche l’interpretazione è, nel complesso, buona. Ogni membro della banda viene ben valorizzato dal suo rispettivo interprete. Ognuno riesce a rendere giustizia al proprio personaggio sfruttando il proprio screen time al meglio delle sue possibilità. 

La banda dei ratti è un action fantasy oscuro e sfaccettato, un’opera che si ostina nella ricerca di emozioni forti,  ma che avrebbe dovuto riflettere maggiormente sul modo per trasmetterle. 

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