Short Film italiani

‘La casa di papà’: una casa che non ha mattoni di cemento

cortometraggio diretto da Maria Rosaria Russo, ha ottenuto un doppio riconoscimento all’edizione 2025 di Afrodite Shorts, il festival dedicato al cinema breve al femminile.

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La casa di papà” è un’opera emotiva sobria, misurata, che colpisce senza mai sentire il bisogno di alzare la voce. Maria Rosaria Russo racconta il ribaltamento silenzioso della vita di un padre dopo la separazione, scegliendo un approccio fatto di sottrazione, di sguardi e di spazi vuoti più che di dialoghi espliciti. Niente melodramma urlato, niente scorciatoie emotive: solo una quotidianità che si incrina lentamente, sotto il peso di un’illusione che diventa necessaria per sopravvivere.

Il cortometraggio ha ottenuto un doppio riconoscimento all’edizione 2025 di Afrodite Shorts, il festival dedicato al cinema breve al femminile.

Francesco (interpretato da Francesco Montanari) è un uomo sospeso, al limite delle proprie forze. La “casa” evocata nel titolo non è tanto un luogo fisico quanto un rifugio mentale, un castello immaginato costruito per proteggere lo sguardo del figlio Mattia (Mattia Manfredonia).

È un’idea di stabilità, più che una realtà. Francesco indossa una maschera quasi pirandelliana: finge controllo, successo, serenità. In realtà nasconde una verità ben più dura, fatta di precarietà, solitudine e rinunce quotidiane. Il film parla soprattutto con gli occhi e con i silenzi, ed è proprio in quei vuoti che si annida il suo dolore più autentico. Ogni gesto è misurato, ogni parola pesa più di quanto sembri.

Separazione

La narrazione sembra separarsi in due movimenti netti. Nel primo, quello condiviso con il figlio, la fotografia è calda, luminosa, attraversata da luci morbide, volti sereni, presenze umane che riempiono l’inquadratura. Il mondo appare vivo, quasi rassicurante, come se tutto fosse ancora sotto controllo, come se davvero quella realtà potesse reggere. Poi arriva il secondo atto, ed è un ribaltamento totale. Il formato si restringe, quasi a schiacciare il personaggio dentro la propria condizione. La fotografia si raffredda, la luce si spegne, i colori si incupiscono, i sorrisi spariscono. La realtà si impone senza chiedere permesso: Francesco non sta costruendo nessuna villa con giardino, non possiede alcuna auto aziendale. Vive dentro la propria macchina, nascosta al figlio, si sposta tra doppi turni in ristoranti e supermercati, tirando avanti giorno per giorno per tenere in piedi quella messa in scena fragile che chiama “normalità”. È un gioco al massacro silenzioso, in cui l’amore per il figlio diventa anche la sua condanna.

Realtà filmica

“La casa di papà” è una storia quanto più reale possibile. Non cerca il vittimismo, non forza mai la mano allo spettatore, non chiede compassione. Mostra una condizione sociale e familiare che esiste, ma che molto spesso resta fuori dall’inquadratura del discorso pubblico. La dignità del film sta proprio in questo sguardo che osserva senza giudicare, che accompagna senza spiegare troppo, che lascia allo spettatore il compito di sentire prima ancora che di capire. Il momento finale, con Francesco che riceve il messaggio “ti voglio bene papà” e crolla in lacrime prima che l’inquadratura si apra sulla Roma notturna, è di una forza disarmante. Colpisce dritto allo stomaco, senza musica enfatica, senza sottolineature. È uno schiaffo emotivo che arriva prima ancora di qualsiasi messaggio di denuncia sociale.

Quella che ci viene raccontata, dunque, è una storia semplice, e proprio per questo universale. Anche chi non l’ha vissuta sulla propria pelle conosce qualcuno che, in forme diverse, attraversa lo stesso dolore. Non c’è nulla di romanzato, nulla di spinto all’estremo per commuovere a tutti i costi. Solo un padre che tenta disperatamente di tenere in piedi un sogno mentre tutto intorno crolla. Una casa che non è fatta di muri, ma di promesse, bugie buone e amore ostinato. Una casa destinata forse a restare per sempre incompiuta, ma che continua a esistere per un’unica, fondamentale ragione: permettere a un figlio di credere, almeno per un po’, che tutto vada bene.

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