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‘Oh. What. Fun’. Il regalo perfetto per chi ama non ricevere nulla

ll film rappresenta l’estetica natalizia più mainstream

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Claire Clauster ama il Natale più di qualunque altra cosa. Per questo, il 23 dicembre, tutto è già pronto: l’albero è addobbato, i regali incartati, il cenone programmato al millimetro. È l’unico momento dell’anno in cui riesce a rivedere i figli e il marito, l’unico in cui può illudersi che la famiglia sia ancora un nucleo affettivo e non un coacervo di solitudini che condividono un tetto. Ma come spesso accade nei racconti di festa, è l’unica a crederci davvero. Quando figli e marito si rivelano l’ennesima delusione, Claire decide di abbandonarli e intraprendere una fuga solitaria, all’inseguimento del suo sogno natalizio.
Un’idea accattivante, almeno sulla carta.
Ed è proprio qui che Oh. What. Fun., diretto da Michael Showalter per Amazon MGM Studios, rivela la sua natura più autentica: una commedia che sembra promettere una ventata di aria fresca, ma che finisce per incarnare alla perfezione l’essenza dell’immaginario natalizio americano contemporaneo. Un’esuberante sovrastruttura fatta di buone intenzioni confezionate, brillantini, zucchero, e di una quantità impressionante di vuoto al centro.

Oh. What. Fun.  Il Natale come decorazione

A livello visivo, nulla da eccepire. Il film è patinato, luminoso, pieno di quella plastica scintillante che rappresenta l’estetica natalizia più mainstream. Ogni ambiente sembra provenire da un catalogo: colori caldi, luci perfette, interni ordinati, atmosfera festiva distribuita come glassa. Tutto è studiato per rassicurare lo spettatore, per ricordargli esattamente quel tipo di film che si aspetta di vedere.

Ma proprio questa perfezione estetica rivela un limite: Oh. What. Fun. è un film che cura moltissimo la confezione e pochissimo ciò che dovrebbe esserci dentro. L’impianto narrativo appare come un insieme di trovate comiche che sulla carta avrebbero anche una loro efficacia, ma che in scena si afflosciano per una ragione precisa: manca completamente il ritmo. I tempi comici sono sfaldati, le battute arrivano troppo tardi, le situazioni non trovano mai la velocità né la tensione necessarie per decollare. Di continuo si percepisce il tentativo, mai riuscito, di innescare una comicità caotica e vibrante, ma il motore resta sempre in folle. Il senso di confusione è amplificato, inoltre, da un utilizzo smodato e completamente ingiustificato della camera a mano. Magari, proprio per sopperire alla mancanza intrinseca di dinamismo, Showalter avrà pensato fosse sufficiente scuotere in continuazione la propria videocamera per abbindolare lo spettatore, nel tentativo di confonderlo il più possibile. Chi può dirlo…

Oh. What. Fun. -La scatola che non convince e un finto politicamente scorretto

Tolto il velo scintillante degli addobbi, rimane il secondo strato: un film che tenta in tutti i modi di presentarsi come qualcosa di più audace rispetto alla media delle commedie natalizie. Vorrebbe essere più irriverente, più spigoloso, più adulto. Vorrebbe giocare con temi come la famiglia disfunzionale, la crisi identitaria, la ribellione al ruolo materno, il senso di inadeguatezza, la dipendenza affettiva e molti altri macro temi impegnati.

Ma l’ambizione resta un’intenzione non realizzata.
Oh. What. Fun. vorrebbe essere politicamente scorretto, ma non osa mai oltre una blanda scaramuccia. È un’irriverenza annacquata,  costruita per sembrare provocatoria senza disturbare realmente nessuno. Sembra un film desideroso di mostrare un lato più “sporco”, ma uno sporco che si lava via in cinque secondi, senza lasciare traccia. É uno sporco patinato pensato per far sentire ribelle anche chi la rivoluzione l’ha sempre combattuta con le unghie e con i denti. Si sa, d’altronde, che il sistema, in quanto tale, ingloba tutto.

La scrittura si muove costantemente con il freno a mano tirato, ed è proprio questo a rendere evidente la natura più profonda del film: si tratta di un prodotto pensato per essere universalmente gradevole, mai veramente tagliente, mai fuori dalle righe. La volontà di infondere una morale socialmente accettabile, “edificante”, è percepibile sin troppo chiaramente.
Il risultato è un’opera che vuole sembrare anticonvenzionale, ma che non si stacca mai dal modello consolidato che pretende di criticare.

Oh. What. Fun. – un vuoto scintillante

E arrivati finalmente al cuore del film, ci si rende conto che dentro l’incarto non c’è quasi nulla. Oh. What. Fun. sembra muoversi verso una riflessione sull’identità familiare, sulla repressione emotiva e sulla solitudine che si annida dietro la facciata delle festività. Ma ogni volta che tenta di costruire qualcosa, la sceneggiatura taglia l’idea sul nascere. Claire  Michelle Pfeieffer ben più che tiepida – è una protagonista potenzialmente interessante: la sua fuga avrebbe potuto aprire un percorso di trasformazione personale reale, doloroso, sincero. Invece il film non affonda mai il colpo, non approfondisce mai gli effettivi drammi interiori dei personaggi, non esplora mai davvero cosa significhi sentirsi vittima di una famiglia che dà tutto per scontato.

E quell’insopportabile finale ne è la prova. Per Showlater, ma forse anche per una grossa fetta di statunitensi, e non solo, l’importante è risolvere a tutti i costi. E quale miglior luogo se non un talk show televisivo per esternare i propri drammi personali? Ma quanto è commovente l’archetipica figura della casalinga borghese, repressa e frustrata, che riabbraccia la famigliola triste e mogia, incapace di andare avanti senza la sua guida? Il tutto di fronte ad una conduttrice anonima, in un enorme studio televisivo, con milioni di spettatori che guardano commossi.
Il dramma personale viene forzatamente reso pubblico, estorcendo al singolo individuo false dichiarazioni sulla propria sofferenza, solo perché posto davanti a un pubblico affamato di calde lacrime natalizie. 

In un epilogo a dire poco orwelliano, Oh. What. Fun. ci insegna, dunque, ad azzerare le nostre emozioni, e a disumanizzarci, in onore del gargantuesco medium che è il sistema. 

Oh. What. fan. Tutto cambia per rimanere uguale

Claire non evolve. Al massimo si sposta, fugge, ma i suoi problemi finiscono sempre per risolversi bevendo un calice di vino.
La sua famiglia non cambia. Chiede scusa, certo, ma non si spinge oltre. Trasferisce solamente tutti i problemi irrisolti in un altro luogo.
E lo spettatore rimane con la sensazione che la vicenda avrebbe potuto portare altrove, se solo il film avesse avuto il coraggio di seguire le sue stesse premesse.

Il vero nodo è proprio questo: lo spirito natalizio che il film critica è lo stesso che riproduce, per il bisogno di rassicurare e di riportare tutto a un equilibrio placido e consolatorio.
Oh. What. Fun. punta sull’idea di essere diverso, ma ogni suo elemento tende invece verso la norma. Come quel regalo incartato in modo impeccabile che, alla fine, contiene solo una promessa mancata.

Il Natale come prodotto: la macchina Amazoniana

A tratti è impossibile non percepire la natura eminentemente industriale del progetto. È un film che sembra esistere più per soddisfare una strategia di catalogo che per una reale esigenza narrativa. Serve una commedia natalizia? Arriva. Serve una morale familiare? Inserita. Serve un pizzico di “trasgressione”? Dosata con prudenza. Serve una protagonista magnetica? Ecco Michelle Pfeiffer.

È difficile ignorare il fatto che Oh. What. Fun. rappresenti la deriva più evidente dell’immaginario natalizio contemporaneo: un rito collettivo ormai svuotato di senso, replicato come un algoritmo. Il film non racconta il Natale: lo simula. Lo riproduce in superficie, con un’estetica impeccabile e un’anima completamente inesistente.

Il risultato è un’opera che scorre, intrattiene quel tanto che basta, ma non lascia nulla dietro di sé, se non una vaga sensazione di déjà-vu.

Il regalo che avresti preferito non scartare

Oh. What. Fun. non è un fallimento clamoroso, ma è proprio questo il problema: non ha la dignità del disastro né il coraggio dell’ambizione. È un film che scivola in quella zona grigia dove tutto è innocuo, piacevole, e dimenticabile. Si guarda senza fastidio, ma anche senza interesse. È un regalo che promette tanto, ma che, una volta aperto, rivela solo il suo involucro.

In un panorama in cui la commedia natalizia può ancora dire qualcosa — magari proprio attraverso l’ironia, la critica sociale, o la destrutturazione del mito — Oh. What. Fun. sceglie la via più conservatrice possibile: quella del rassicurante, del già visto, del prodotto da consumo rapido.

Un film che indossa la magia del Natale, ma che non la abita.

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