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‘Aileen: Queen of the Serial Killers’ e la perversione degli sguardi

Icona, carnefice, vittima

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In tempo per Halloween, il 30 ottobre 2025 é  arrivato su Netflix Aileen: Queen of the Serial Killers (in italiano riportato come Aileen: Storia di una serial killer). Annunciato a settembre, il documentario true crime è scritto e diretto da Emily Turner.

Il racconto si concentra su una tragedia umana già esplorata da diversi titoli  tra cui il noto film Monster con Charlize Theron premio Oscar.

Questo documentario, tuttavia, permette di avere un punto di vista più approfondito non solo sulla vicenda, ma sui molteplici sguardi che sulla stessa si sono posati nel tempo. Ma quali sono gli elementi che lo rendono più distintivo rispetto alle narrazioni precedenti?

Aileen: Queen of the Serial Killers – I fatti

I dati certi sono pochi: Aileen è una prostituta che ha ucciso sette clienti. Per anni – come suggerisce il sottotitolo – è stata descritta come una serial killer, una spietata assassina, una figura quasi mitologica degli anni Novanta. Il documentario cerca di ricostruire la sua storia attraverso molteplici prospettive.

God save the Queen of the Serial Killers

Il giornalista Orlando Salinas, in un servizio di Fox News dell’epoca, definisce Aileen Wuornos:

“[…] la dama della morte e odiatrice di uomini per eccellenza, sgradevole e poco sexy […]”

La forza di parole come queste rivela da subito uno sguardo complesso, che ha sempre accompagnato la vicenda e che continua a persistere, ventitré anni dopo la morte della donna.

Le prime battute del film provengono da Steve Binegar, a capo delle indagini al momento del ritrovamento dei primi cadaveri. Si tratta di frasi di giudizio assoluto, rivolte al suo aspetto, al fatto che fosse “poco carina” e alla sua condizione di prostituta. Elementi che poco hanno a che vedere con i crimini commessi da Wuornos, ma che, più che delineare chi fosse realmente la persona al centro del documentario, restituiscono un quadro preciso del giudizio di coloro che hanno partecipato al film e alle indagini.

Nei prodotti televisivi di genere true crime si percepisce spesso un’aura di devozione religiosa, una riverenza verso Dio e le sue regole. Questo documentario non fa eccezione: emerge un sottotesto quasi puritano che non giudica tanto i fatti o i crimini in sé, quanto la moralità di Aileen, la sua condotta come donna al cospetto di Dio.

Dai commenti delle persone scelte per raccontare la sua storia emerge come la bontà degli individui venga spesso misurata in base alla loro vicinanza alla fede, soprattutto nella prima parte del film. Nel racconto dell’infanzia che Aileen fa di sé, ricorre più volte il riferimento ai genitori come ferventi religiosi. Alcuni conoscenti della famiglia la descrivono come una famiglia timorata di Dio.

La regia stessa mostra immagini di Aileen bambina accanto a una Bibbia, probabilmente per sottolineare il profondo contrasto tra la figura “timorata di Dio” e quella della “serial killer”.

Doppia non conforme

Solo poco prima della metà del film, alcune brevi frasi iniziano a contestualizzare la vita di Aileen. Vittima di stupro più volte quando era ancora una ragazzina – da amici di famiglia, compagni di scuola – segnata dal suicidio del padre, anch’egli stupratore, dall’abbandono dei nonni e da ulteriori stupri subiti fino all’età adulta. Una persona così profondamente segnata dal trauma da considerare lo stupro un evento ordinario, arrivando a definire “deboli” le donne che non riescono a superarlo. Il film offre solo frammenti di questa storia, senza mai soffermarsi a lungo sul passato né contestualizzare pienamente le condizioni della donna.

Maggior attenzione è invece riservata al processo, esplorato attraverso l’indagine giornalistica di Michelle Gillen, che diventa quasi una co-protagonista, cercando di orientare lo sguardo dello spettatore. In particolare, viene approfondito un episodio rilevante: la rimozione di una giudice donna per “evitare preferenze”. In dettaglio, invece, è raccontato lo stupro che ha subito dalla sua prima vittima. Solo in questo punto emerge uno sguardo più critico e severo nei confronti della giustizia e dei pregiudizi che la società nutre verso le donne.

Il pregiudizio del procuratore John Tanner è più volte evidenziato, e lui stesso sembra farsene un vanto. A tratti appare come l’antagonista principale della storia ed è, senza dubbio, colui che orienta la narrazione contro Aileen. Il documentario offre anche alcuni spunti per esplorare il tema della sessualità, in particolare quella di Wuornos. Dagli audio proposti emerge come lei stessa non la comprenda pienamente: il suo profondo amore per la compagna Tyria viene descritto come “essere d’accordo con il lesbismo”.

Numerosi sono gli spunti di riflessione che emergono, molti dei quali tuttavia restano appena accennati o spostati verso una sovra-narrativizzazione della vicenda.

Lost & Found

È proprio sul piano narrativo che questo film trova il suo punto di forza. Un uso sapiente e raffinato dei materiali d’archivio e di found footage consente di ricostruire la vicenda nella sua interezza: dalle riprese degli investigatori e degli agenti di polizia ai filmati stock di Daytona Beach. Il comparto sonoro si distingue per la capacità di integrare non solo audio diegetico, ma anche suoni creati ad hoc per “doppiare” le scene mute. La struttura in tre atti, solida e ben delineata, evidenzia il tentativo di avvicinare il documentario al linguaggio del cinema di finzione. Questo approccio risulta evidente nella totale assenza di confessionali: i narratori compaiono solo nei filmati d’archivio, non si rivolgono mai alla regista e non infrangono la quarta parete.

È inoltre ricostruito il rapporto tra Aileen e Tyria, che assume quasi i contorni di una sottotrama romantica, contribuendo ulteriormente alla spettacolarizzazione complessiva del dramma.

La pena

Lo spettacolo costruito attorno alla vita di Aileen si conclude con la sua esecuzione sulla sedia elettrica,  macabro spettacolo a cui un pubblico può assistere. Il film non si sofferma sulla morte della donna, è raccontata dagli altri, restituendo infine un frammento di dignità a chi fu forse più vittima che carnefice.

L’intero terzo atto è dedicato alle ricerche e alle riprese realizzate da Jasmine Hirst, particolarmente vicina ad Aileen nell’ultimo periodo della sua vita. Lo stile cambia: diventa più intimo, più delicato. È l’ultimo sguardo che il film concede, un commiato privo di enfasi ma carico di rispetto.

Il racconto si chiude con un cartello che riporta un sito dedicato a chi ha subito abusi. È ora chiaro che il film prende una posizione.

Questo film si propone come un documentario di denuncia contro le contraddizioni di una società patriarcale, colma di doppi standard e giudizi sommari. Riesce in parte nel suo intento, pur cadendo talvolta nella trappola di adottare lo stesso sguardo pregiudizievole che intende criticare. Tuttavia, la pluralità di prospettive consente a chi osserva con attenzione di cogliere le distorsioni di una cultura fondata sulla violenza, sul giudizio e sull’esclusione dei più fragili, dove troppo spesso la giustizia si confonde con la vendetta.

Aileen: Queen of the Serial Killers nasce come lo studio di una serial killer, ma si trasforma in qualcosa di più profondo: uno sguardo rivolto a coloro che, prima di interrogarsi su sé stessi, hanno scelto di puntare il dito.

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