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‘Dracula’ di Luc Besson: l’amore eterno, tra dannazione e redenzione

Una dichiarazione all’ amore stesso

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Presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma é ora in uscita nelle sale italiane dal 29 ottobre, Dracula: A Love Tale di Luc Besson, un’opera sorprendente, profondamente romantica, intimamente blasfema e stratificata, capace di restituire nuova linfa a una delle figure più abusate dell’immaginario collettivo.

Distribuzione Lucky Red.

Dopo anni di adattamenti più o meno riusciti, il regista francese firma un Dracula che sembra voler rinnegare il vampirismo come mito e lo rilegge come sintomo di una malattia più radicale: l’amore.

Un Dracula per Caleb Jones

La scintilla creativa non è nata da Dracula, il celebre romanzo di Bram Stoker pubblicato nel 1897, ma da Caleb Landry Jones, già protagonista dell’ultimo film di Besson DogMan (2023). «Non è Dracula, è Caleb la mia ossessione», ha dichiarato il regista in un’intervista a Deadline. Jones è il cuore pulsante del film e incarna un Dracula lontano dalla ferocia archetipica: il suo è un personaggio stanco, ma profondamente devoto al ricordo della moglie perduta, Elisabetta, e alla ricerca della sua reincarnazione in Mina, entrambe interpretate da Zoe Bleu.

Il film sembra dialogare a più livelli con l’opera di Francis Ford Coppola, Dracula di Bram Stoker del 1992, e lo fa anche attraverso una precisa costruzione estetica del protagonista. Allora a interpretare il Conte era stato Gary Oldman, attore con cui Besson ha successivamente collaborato più volte e di cui ha spesso apprezzato l’intensità. La scelta di Caleb Landry Jones per il ruolo di Dracula rappresenta quindi per Besson un ideale proseguimento di quella linea di attori che sanno incarnare un’energia insieme inquietante e affascinante. Ora è lui a raccogliere quel testimone, riletto dal regista francese, attraverso uno sguardo più intimo e malinconico, che piega il mito del vampiro verso una dimensione più fragile e umana.

Lontano da Londra, vicino al cuore

Ambientato tra la Transilvania e una raffinatissima Parigi in piena Belle Époque, il film evita ogni cliché gotico inglese: «Non volevo fare un classico film inglese con gente che beve il tè e dice “Indeed”», scherza. Il suo Dracula non è il mostro aristocratico che seduce per puro dominio, ma un uomo spezzato dalla morte della moglie Elisabetta, e che da quattro secoli attende la sua reincarnazione.

Un film sui sintomi dell’amore

Al centro del film non c’è semplicemente il vampirismo, ma il sentimento complesso che lo ha generato. La sete di sangue non è la malattia in sé, ma il segno di un amore profondo e tormentato, un legame incondizionato che unisce Dracula alla sua amata Elisabetta. Tuttavia, questo amore non è mai semplice o puro: è attraversato da dolore, rimpianto e dalle ombre di una cultura che ne condiziona l’espressione. Ogni gesto del conte, anche il più estremo e indiscutibilmente mostruoso, nasce da un sentimento che fatica a trovare pace nel tempo e nello spazio. Questa sofferenza lo trasforma, rendendo la sua eternità una condanna. Besson ci mostra così un Dracula sospeso tra l’eroismo tragico e una goffaggine commovente.

Goffaggine e tenerezza: la chiave di un equilibrio sorprendente

Ed è proprio questa goffaggine, a tratti inaspettata, uno degli aspetti più riusciti del film. Una comicità gentile e giustamente dosata attraversa l’opera, senza mai sminuirne la sua intensità emotiva. Tutto è tenuto in un equilibrio narrativo sapiente, che oscilla tra il sublime e il ridicolo con una grazia rara. È proprio il contrasto di tono delle varie scene a far emergere il lato più umano e vulnerabile del conte, un’umanità che si rivela, paradossalmente, nel desiderio di porre fine alla propria vita. Un desiderio, però, irrealizzabile per un morto vivente, trasformando così, quella che dovrebbe essere una scena tragica in un sali-scendi suicida dalla torre del castello, ostinato e teneramente assurdo. Una parabola dolceamara sulla dannazione dell’eternità.

La morale di Van Helsing

Il personaggio del conte, colto nella sua anzianità maestosa, è reso magnificamente da Caleb Landry Jones, che gli dona una presenza salda, saggia, e insieme vulnerabile. Si fa amare proprio nella sua complessità, restituendoci un uomo che mette in discussione la propria fede e le proprie responsabilità.

Il personaggio del sacerdote, Van Helsing, interpretato da Christopher Waltz, quasi un grillo parlante peccatore, ci accompagna in questa riflessione, ribaltando la narrazione eroica e costringendo il protagonista a confrontarsi con l’ambigua natura dei sacrifici compiuti “per un bene superiore”. La domanda che emerge è dolorosa: quanto di ciò che facciamo in nome di Dio, dell’amore o di un ideale, risponde davvero a una vocazione altruistica, e quanto invece cela di un desiderio più oscuro, personale, forse egoista?

Una dichiarazione d’amore

L’intera pellicola è, in definitiva, una dichiarazione d’amore all’amore stesso. E nella sua svolta finale raggiunge la rivelazione più profonda: l’amore autentico non è possesso, né desiderio, né pretesa di reciprocità. È, piuttosto, consapevolezza, rinuncia, responsabilità.

Questa presa di coscienza arriva proprio attraverso il personaggio di Van Helsing, figura a metà tra la guida spirituale e il sacerdote disilluso, che incarna  e insieme nega il sistema di cui fa parte. Non è l’amore, allora, a generare il mostro: sono l’odio, la repressione, il disprezzo morale verso il desiderio carnale a trasformare l’uomo in creatura. Dracula questo lo comprende fino in fondo proprio nel momento in cui, per amore, sceglie di rinunciare a sé stesso.

Il gesto che redime

La sua forma mostruosa, infatti, non è solo una condanna sovrannaturale, ma il simbolo di un’identità incapace di vivere l’amore nel modo giusto: libero, consapevole, paritario. E così, invece di perpetuare quella violenza sotto la maschera della devozione, il conte sceglie di fermarsi. Comprende che amare davvero, talvolta, significa anche accettare di non essere in grado di amare.

È in questa rinuncia, nella consapevolezza di non voler trascinare Elisabetta in un destino che non le appartiene, che Dracula si libera dalla propria dannazione. Perché liberando lei, finalmente, libera anche sé stesso.

L’amore vero non condanna

Non si tratta, dunque, di un elogio all’amore malato, ma di una sua messa in discussione più dolorosa e necessaria. Il film suggerisce che l’amore, per essere autentico, deve nascere dalla capacità di non nuocere, di non imporsi, di non condannare. E forse è proprio in questa consapevolezza che Dracula ritrova la sua umanità, non per salvarsi, ma per smettere di condannare chi ama.

In questo senso, l’opera di Besson è forse la più radicalmente romantica tra le trasposizioni del mito: perché lascia intendere che l’amore più grande non è quello che resiste a ogni costo, ma quello che sa quando è giusto finire.

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