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‘John Candy: I Like Me’ il documentario che racconta la tragica interiorità del comico canadese

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Il film John Candy: I Like Me è il terzo documentario, dopo ‘All Things Must Pass: The Rise and Fall of Tower Records’ (2015) e ‘Eagles of Death Metal: Nos Amis (Our Friends)’ (2017), che vede alla regia Colin Hanks. La ricostruzione della vita del comico canadese è un omaggio alla sua umanità, intento del regista era infatti quello di proporne una visione intima, psicologica e non meramente cronologica. 

Citizen Candy, l’ascesa e la caduta di un “uomo come tanti”

Il tono e gli intenti dell’intera opera sono immediatamente messi in chiaro in primis dalle fraterne parole dell’attore Bill Murray, il quale si dice paradossalmente dispiaciuto di non poter dire nulla di negativo sull’amico; in secondo luogo dall’uso di una scena tratta da ‘Citizen Steve’ (1987), cortometraggio parodia di ‘Quarto Potere’ (1941) prodotto per i quarant’anni di Steven Spielberg. Nel frammento del film di breve durata dedicato al regista de ‘Lo squalo’ (1975), sentiamo Dan Aykroyd dire a John Candy “gli diremo più di quanto lui sappia di se stesso”. Il documentario fa infatti emergere il lato oscuro e nascosto di un volto sempre sorridente come quello di Candy, un’indagine che ripercorre la vita dell’uomo e non del personaggio attraverso le testimonianze dirette di chi l’ha conosciuto. Inoltre, nonostante la vita del comico candese non sia stata al centro di bufere mediatiche come quella di Charles Foster Kane, il destino della carriera di entrambi è stato segnato dal tentativo di compensare ciò che sin dall’infanzia gli era stato strappato. Ma sebbene anche la vita di Candy sia stata un eterno tendere a Rosabella, la sua biografia è priva di eccessi pubblici; al di là dell’abuso di cibo, alcol e sigarette, non sfociò mai negli eccessi che caratterizzano le vite dei membri del SNL a lui vicini. Nonostante la sua figura imponente e la sua straordinaria forza si dimostrò sempre un uomo mite, quasi mai diede spettacolo in pubblico ad eccezione della volta in cui uno stupefatto Bob Crane lo vide avventarsi furiosamente su un uomo che gli aveva urlato “John Candy fa schifo!”. Ciò che il documentario racconta sono le contraddizioni interne, uno scandalo sì ma familiare, quello di aver perso il padre a soli cinque anni in un ambiente incapace di elaborare quel lutto che avrebbe poi segnato tutta la vita del comico fino alla sua tragica e prematura fine. 

Più di un comico, dal piccolo al grande schermo 

Sebbene la carriera di Candy non sia iniziata nel cinema, quanto invece nelle compagnie di improvvisazione e poi in tv, sono proprio i suoi film che l’hanno consacrato al grande pubblico. Se con l’opera di S. Spielberg ‘1941 – Allarme a Hollywood’ (1979) inizia definitivamente il suo percorso sul grande schermo, è invece con il successo di ‘Stripes’ (1981) che arriva la vera svolta; nonostante la partecipazione ad un cult come ‘The Blues Brothers’ (1980), è infatti con la commedia diretta da Ivan Reitman che inizierà ad affermarsi ad Hollywood. A partire da quel momento in poi sono infatti innumerevoli, qualcuno direbbe troppi, i progetti a cui parteciperà, ma in tutti riuscirà a conservare la propria identità. Da una parte non smise mai di essere una persona giocosa, sul set era infatti solito cercare di far divertire non solo gli attori ma anche i membri dello staff. Un affabile istrionismo che lo portò anche ad entrare in collisione con alcuni suoi colleghi più “istituzionali”, è il caso di Richard Pryor che finì per lamentarsi con il regista durante le riprese di ‘Chi più spende… più guadagna!’ (1985). Inoltre, in tutti i ruoli interpretati da Candy la persona rimase sempre riconoscibile dietro al personaggio, non tanto per un suo peculiare modo di fare quanto per quella tragica umanità che nascondeva dietro ad un’innata verve comica. 

Mille personaggi, nessuna maschera

A detta dei familiari e dei suoi più vicini conoscenti, i due personaggi che meglio esprimono questa profondità d’animo di John Candy, una ricchezza interiore che lo rendeva molto più di un semplice comico, sono stati entrambi scritti dal sodale ed amico fraterno John Hughes: il primo è Del di ‘Un biglietto per due’ (1988), il secondo è lo zio in ‘Io e zio Buck’ (1989). Lo stesso Candy quando lesse la sceneggiatura per ‘Un biglietto per due’ disse che il suo personaggio sembrava scritto apposta per lui; è proprio Del che pronuncia la battuta scelta per il sottotitolo del documentario, “I like me!”. In questa semplice frase è racchiusa la tragedia dell’attore, questa accettazione di sé o meglio la possibilità di non essere angosciosamente dipendente dall’accettazione degli altri  è ciò che non gli è mai stato possibile raggiungere. Sebbene il comico considerasse la recitazione un modo per nascondersi da se stesso, prendere possesso di un’altra vita per fuggire dalla sua, proprio ruoli come questo lo hanno costretto ad affrontare (forse solo inconsciente) l’eco del suo passato; si può pensare che non sia un caso che l’anno successivo a ‘Io e zio Buck’, al compimento dei quarant’anni, iniziò a soffrire di attacchi d’ansia nonostante la sua brillante carriera non accennasse ad arrestarsi. Passando ora all’altro personaggio, lo zio Buck incarna sempre con una vena tragica un altro lato del carattere di Candy, ovvero il fatto che per tutta la sua vita non abbia mai smesso di di recitare una parte. Proprio come se non avesse mai abbandonato la parte del bambino che si sentiva in dovere di alleggerire con il suo umorismo la vita gli altri, l’unico modo che trovò per superare la perdita del padre. Il personaggio bonariamente fuori dagli schemi di Buck riassume la genuina e positiva infantilità del comico, quell’attitudine che Candy espresse nel suo essere padre nella vita reale e nell’essere lo zio del piccolo Miles (Macaulay Culkin) nel film. L’aneddoto della vita del comico canadese che più di tutti si avvicina al personaggio di Buck, è quello che riguarda il modo rocambolesco in cui ottenne la parte per il film ‘1941 – Allarme a Hollywood’. L’arruolamento nel cast fu totalmente fortuito, Spielberg infatti lo scelse dopo che il comico,  completamente ubriaco ad una festa, disse al regista “mi piace quel tuo film sul pesce”. 

Il documentario di Colin Hanks si rivela una fonte preziosa, un modo per (ri)scoprire sia la brillante carriera che la tragica umanità di un comico ed attore che è stato in grado di intrattenere ed emozionare intere generazioni di spettatori. Il film permette di conoscerne la ricca e tormentata vita interiore dalla viva voce di chi gli è stato accanto tutta la vita, ma anche da chi ne ha colto il valore umano durante le sole riprese di un film. La ricostruzione dell’esistenza di un uomo la cui figura tondeggiante e rassicurante, causatagli dai traumi del suo passato e dalle imposizioni di Hollywood, l’ha reso grande ed amato in tutto il mondo.

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