Ritenuta una delle registe più emblematiche e complesse del nostro tempo, Chloé Zhao si caratterizza per la traiettoria unica della sua carriera che l’ha portata da Pechino al cuore dell’industria hollywoodiana fino al premio Oscar, passando per la provincia americana e i festival europei. Un percorso che non solo attraversa continenti e generi, ma mescola i confini tra cinema d’autore e mainstream, tra narrazione e documento, tra marginalità e centralità.
Un’identità nomade, prima ancora che autoriale
Nata nel 1982 in una famiglia della media borghesia cinese, fin da giovane manifesta un interesse particolare per la cultura occidentale. A 15 anni ottiene una borsa di studio per studiare a Londra, proseguendo poi la sua formazione a Los Angeles e diplomandosi in Scienze Politiche al Mount Holyoke College. Successivamente frequenta la facoltà di cinema alla Tisch School of the Arts di New York, ma il suo sguardo artistico non si forma tra le aule universitarie. Lo fa sul campo, tra le badlands del South Dakota, nelle riserve Sioux, tra cowboy feriti e vite ai margini. È lì che sceglie di raccontare ciò che il cinema spesso ignora: l’America rurale, post-industriale, spogliata del suo mito eroico.
Il suo primo lungometraggio, Songs My Brothers Taught Me(2015), esordio presentato al Sundance Film Festival, decide di sfidare le etichette: è un ibrido poetico tra documentario e fiction, interpretato da attori non professionisti, che racconta la storia di due fratelli Sioux che si ritrovano ad affrontare l’improvvisa morte del padre. Con The Rider (2017) perfeziona il suo approccio: l’uso di volti autentici, la camera immersiva, i paesaggi come stati dell’anima. Il suo è un cinema etnografico, etico, che nasce dall’ascolto e dalla co-costruzione con chi racconta.
Nomadland: il film giusto al momento giusto
Con Nomadland, Chloé Zhao non tradisce la sua poetica, ma la eleva a discorso universale. La storia di Fern (Frances McDormand), vedova e senza casa, che attraversa gli Stati Uniti in un furgone, diventa la parabola dolente e dignitosa di un’intera generazione spazzata via dal capitalismo. Zhao firma regia, montaggio, sceneggiatura e produzione: un controllo autoriale quasi totale su un’opera che ha il coraggio di rallentare, di osservare, di restare. Paradossalmente, è proprio con questo film “lento” che conquista il mondo veloce delle premiazioni: Leone d’Oro a Venezia, Golden Globe, BAFTA, Oscar.
In un’industria che si affretta a correggere decenni di esclusione e maschilismo sistemico, Zhao è la regista che sfida questi limiti: donna, asiatica, indipendente. Ma ridurre il suo successo a un “momento storico” o a una questione di identità sarebbe ingiusto. Nomadlandha trionfato perché la cineasta ha dimostrato un raro controllo sul linguaggio cinematografico, e una sensibilità nell’uso accorto della macchina da presa come strumento di ascolto, non di imposizione.
L’approdo (necessario?) al sistema
Il passaggio a Eternals(2021), cinecomic Marvel, ha diviso critica e fan. C’era chi temeva un tradimento dell’autorialità, chi lo vedeva come un’evoluzione naturale. Zhao ha dichiarato di aver voluto portare il suo sguardo anche nel cinema commerciale – ma l’impressione è che Eternalssia stato un compromesso, più che una contaminazione riuscita. Le sue scelte registiche realistiche si scontrano con la CGI ipercontrollata dei Marvel Studios; la coralità del racconto viene soffocata dalla necessità di preparare il terreno per una serie sequel e spin-off (ancora non realizzati).
Il film ha avuto un’accoglienza tiepida, il pubblico Marvel non era pronto a una riflessione sul tempo, la memoria e l’eternità e allo stesso tempo la regista non era disposta a sacrificare del tutto la sua voce. Eternalssegna comunque un punto critico della sua carriera: può il cinema d’autore sopravvivere dentro la macchina dell’intrattenimento?
Hamnet e il ritorno alla scrittura intima
Il prossimo progetto di Zhao, Hamnet, tratto dal romanzo di Maggie O’Farrell, sembra riportarla a un territorio più familiare. È la storia di Agnes (Jessie Buckley), moglie di William Shakespeare (Paul Mescal), e della morte del loro figlio undicenne. Ancora una volta, la regista si concentra su una figura femminile, su un’assenza, su un dolore trattenuto. È qui che il suo cinema può tornare a brillare: nella sottrazione, nel silenzio, nella vita non spettacolare. Se Nomadlandraccontava l’America post-crisi, Hamnetpotrebbe essere il racconto del lutto come spazio della creazione.
Un cinema che non si lascia possedere
Chloé Zhao è una cineasta che ha ridefinito il concetto stesso di sguardo: nomade, empatico, laterale. Il suo cinema attraversa generi e territori, ma non si lascia possedere da nessuno. Non è un caso che nei suoi film i protagonisti siano spesso in viaggio, senza meta fissa, spinti da una forza interiore che li porta a resistere, anche quando tutto intorno crolla.
In un momento in cui il cinema rischia di diventare sempre più algoritmo e sempre meno gesto umano, Chloé Zhao ricorda che il film è ancora – e sempre – un atto di ascolto, un modo per abitare il mondo.