The Last Ambassador (Die letzte Botschafterin), in proiezione l’11 Ottobre al Middle East Now di Firenze, nasce dalla volontà della regista e sceneggiatrice Natalie Halla di voler approfondire la lotta di Manizha Bakhtari: l’ultima ambasciatrice donna dell’Afghanistan operante a Vienna.
Il docufilm ci introduce in un’atmosfera privata e sociale allo stesso tempo, con uno sguardo analitico ed empatico, verso colei che tenta di dare un aiuto all’intera popolazione femminile afghana. Non ci sono altre voci. La parola è di Manizha: una mamma, una moglie, una donna come le altre che rischia di perdere tutto pur di far valere i diritti umani internazionali. Il film rivolge lo sguardo su uno scorcio di mondo che avrebbe bisogno di aiuto e che si ritrova a dovercela fare con le proprie mani.
Una storia di resistenza
Nel 2020, gli Stati Uniti raggiungono un accordo con i talebani per mettere fine a una guerra dalla durata di vent’anni. Il Doha Deal viene siglato segretamente e alle spalle della popolazione afghana, permettendo così ai talebani di rovesciare il governo nel 2021. Questo evento inaspettato dà inizio alla lotta di Manizha Bakhtari, come lei stessa ci racconta all’inizio del film con le lacrime agli occhi, ma anche con fermezza e senza paura. Insieme a lei, percorriamo i passi che l’hanno portata ad abbracciare la resistenza, anche in senso letterale. La cinepresa ci permette di seguirla sui mezzi pubblici e nelle auto, e di assistere alla prosecuzione delle sue mansioni sul luogo di lavoro che con fatica ha riottenuto.
È una guerra che Manizha porta avanti con pochi aiuti e molte difficoltà. Dalla sua parte ci sono le donne afghane, vittime di un regime che ha deciso di escluderle sempre di più dalla vita sociale. Il senso di responsabilità di Manizha verso queste ragazze porta l’ambasciatrice a sviluppare il Daughters’ Programme, offrendo alle donne – in prima persona – l’opportunità di potersi istruire di nascosto.
La speranza è l’ultima a morire
L’universo sonoro essenziale e paralizzante orchestrato da Karwan Marouf è in grado di manifestare con i suoni la gravità della situazione. L’immagine filmica – allo stesso modo – è pura e semplice, e riflette non soltanto la calma e la speranza infinita di Manizha che opera la sua volontà rischiando la vita, ma anche la povertà imposta dal regime talebano che limita l’arte e l’allegria.
The Last Ambassador non vuole essere soltanto una testimonianza del lavoro e della vita di Manizha o una denuncia sociale, ma una presa di coscienza su quanto possa essere terribile amare la propria terra e non poterla più considerare la propria casa. Nell’ultimo fotogramma vediamo Manizha, di spalle, vicinissima al confine afghano. La donna volge lo sguardo verso la sua terra: essa pare lontanissima, irraggiungibile, ma per Manizha la speranza è davvero l’ultima a morire.