In un panorama cinematografico saturo di action frenetici e dialoghi iperbolici, The Silent Hour arriva come un sussurro tagliente, un thriller che sfrutta il silenzio non solo come elemento narrativo, ma come alleato strategico dei protagonisti. Diretto dal veterano Brad Anderson – noto per il cupo The Machinist (2004) e per il suo tocco da maestro nel genere noir. Questo film del 2024 segna un ritorno alle origini del cat-and-mouse game, con un twist affascinante: i suoi eroi sono sordi o ipoudenti.
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L’assenza del suono come espediente narrativo
La trama si dipana in un appartamento abbandonato di New York, un labirinto di ombre e echi lontani, dove Shaw – reduce da un trauma che gli ha rubato l’udito – viene richiamato in servizio per proteggere Jane, unica testimone di un omicidio legato a una faida tra bande. Intrappolati in questo bunker urbano, i due devono fidarsi l’uno dell’altra per sopravvivere a un gruppo di assassini che li dà la caccia. Il film gioca magistralmente con l’assenza del suono: i killer si muovono come fantasmi inudibili, mentre i protagonisti sfruttano vibrazioni, vibrazioni visive e linguaggio dei segni per anticipare le mosse nemiche. È un’idea brillante, che trasforma la disabilità in superpotere.
Grandi interpretazioni per una chimica elettrica
Protagonisti sono Joel Kinnaman nel ruolo del detective Frank Shaw e Sandra Oh come la testimone sordomuta Jane Washington. Con un cast di supporto solido che include McCaul Lombardi e Justice Smith.
Sandra Oh, già icona per la sua versatilità in Killing Eve, brilla qui come Jane. Il suo personaggio non è una vittima passiva, ma una donna resiliente, astuta, che usa la sua “cecità acustica” come scudo e arma. Joel Kinnaman, con il suo volto segnato e lo sguardo tormentato, incarna Shaw con una vulnerabilità rara per un eroe d’azione
La chimica tra i due è elettrica, costruita su sguardi, gesti e silenzi carichi di tensione, rendendo le scene di “conversazione” tra i più memorabili del film.
Una regia asciutta e claustrofobica
Anderson, con la sua regia asciutta e claustrofobica, evoca echi di Wait Until Dark (1967) o Don’t Breathe (2016), ma infonde una profondità emotiva che eleva il tutto oltre il mero survival horror.
Girato con un budget modesto (stimato intorno ai 10-15 milioni di dollari), il film compensa con una fotografia magistrale di John Gilroy: luci al neon tremolanti, ombre lunghe che divorano i corridoi, e un uso sapiente del suono – o meglio, della sua assenza – che crea un’immersione totale. Le sequenze d’azione sono taut e coreografate con precisione chirurgica, evitando gli eccessi CGI per privilegiare il realismo crudo. C’è un momento, verso la metà, in cui una vibrazione del pavimento diventa il solo avvertimento di un pericolo imminente: è cinema puro, che ti fa trattenere il fiato senza un solo sparo fuori posto.