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‘Il rifugio atomico’: un mucchio di terra tra noi e l’apocalisse
Qualcosa non va nel Kimera Underground Park
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4 ore agoon
La finzione non è lontana dalla realtà… Tranne che esiste un enorme bunker sotterraneo alla Spagna.
E che in esso 45 tra le famiglie più ricche del Paese siano convinte che una testata nucleare abbia spazzato via i loro cari, le loro case e tutto quanto conoscevano della vita in superficie. Questa, ora, quando guardano in alto (dove non hanno mai guardato), là fuori, è incenerita dalle polveri radioattive e dai venti infuocati a 86° Celsius. Ci può essere Inferno peggiore? La risposta è sì.
Il rifugio (an)atomico
Abbiamo visto Squid Game, abbiamo visto La Casa di Carta. Unendo le due cose, ne viene fuori un massacro civile, un thriller che è un’escalation di cliché e frasi fuori luogo, e tanto tanto sesso.
Il rifugio atomico, il Kimera Underground Park, è il frutto malato di un Grande Fratello (e non quello del capolavoro di Orwell), una donna che “odia i ricchi” – è la sua battuta nella serie – e che fa di tutto per non odiarli: li chiude in una scatola ermeticamente e aspetta, che si mangino l’un l’altro. Mette in scena una montatura, fa loro credere che, lassù, abbiano finito di vivere, e, così, li tiene buoni, sottoterra.
Ma l’odio non l’appaga, quello che cerca sta nelle loro tasche, nelle loro casseforti e nei loro cavalli da premio. Rinchiuderli all’interno di un’Atlantide-Panopticon, progettato come un hotel di lusso a 275 metri di profondità, fingendo che sulle loro teste gravi il peso di una guerra atomica, è il piano per tenerli occupati. Il vero piano è quello, più gretto, di derubarli, per bilanciare i contrappesi dei bracci, far rivalere un ordine sociale che è sempre pesato più da una parte.
Intanto, nel bunker, si fa tanto l’amore, ma non per vivere spensierati gli ultimi (forse) attimi di esistenza. Dalla disperazione iniziale della fine del mondo, ogni senso si inibisce a mano a mano che le tresche, i tradimenti, i divorzi improvvisati nascono e muoiono a 900 piedi sottosuolo. Il sesso è poco sesso ed è donna: la femmina è l’edonistica femme fatale, che qui però si moltiplica in sette figure, tutte e sette bisognose di attenzioni, in cerca del letto su cui consumare e consumarsi. Chi per ripicca, chi per fare invidia, chi in segreto, chi per un complesso di superiorità, chi mai per amore.
Il rifugio (an)atomico si trasforma nel quadrilatero meno sensuale, più noioso e più accondisceso della storia, quando complice è il carattere monocorde e assuefatto dei personaggi e una certa malizia nel rivelare a puntata 1 il tranello allo spettatore – come farebbe Hitchcock, d’altronde, ma non scomodiamo il Maestro.
Put on the red light
Dopo la presentazione posticcia della serra clandestina, ha dunque avvio la Fase 1 dell’operazione Roxan, la macchina super intelligente controllata da un’AI ideata su misura per il bunker. Possiede, analizza e controlla i dati biometrici degli ospiti, ne conosce le vite private dentro e fuori del rifugio, sa pure imitare emozioni, spasmi muscolari, tono di voce attraverso deep fake, ma non sa identificare una sigla, BJ3 – e basterebbe questo a mandare tutto all’aria?
I piani, dopo qualche strafalcione, seguono come previsto. E il Paradiso Terrestre, al piano interrato del Pianeta, invisibile all’occhio, ai radar e alle “radiazioni”, diventa il mattatoio del pudore e dell’amor proprio. I protagonisti sono due, una famiglia amica-rivale dell’altra. Ma Roxan, ovverosia il Grande Fratello, ovverosia Minerva (Miren Ibarguren), è interessata alla proprietà patrimoniale di una delle due, l’azienda miliardaria Falcolm, dalla quale spilla una bella somma (900 milioni di euro) che dovrebbe, in qualche modo, sfamare il suo disprezzo verso i ricchi.
Minerva è il capo, il fratello (Álex Villazán) è la mente e Roxan il braccio. La protesi che consola l’uomo della sua impotenza. Anzi, che lo fa eccitare, lo fa piangere, lo fa ballare, alienato dall’idea di star parlando con una macchina senza nervi, apatica e priva di senso del ritmo. Roxan è il giochino con cui si trastulla la mente umana quando non ha idee per reinventarsi, ma diventa una risorsa preziosa nel momento del bisogno. Il rifugio atomico espande entrambe le prospettive: l’AI spia e viene spiata, le si attribuisce un “miracolo” e le si copre la vista come fa il genitore col bambino davanti a un film dell’orrore; al tempo stesso, diagnostica la malattia a una paziente, forse, ma per un breve attimo, le salva la vita.
Il buio oltre la soap
Álex Pina, assieme a Esther Martínez Lobato, si cimentano in un’opera infra-apocalittica, mischiata al survival e al drama in uno spazio ristretto, forse troppo piccolo per contenerli entrambi. Difatti, il survival abbandona la serie dopo la prima puntata. Quello che succede poi, fino alla numero otto, ha i sentori del teen drama, dell’action piatto e degli intrighi famigliari, che si piantano su una base di scrittura già malferma. Dire che Il rifugio atomico è una serie thriller dove in ballo ci sono i giochi di potere, il tema dell’intelligenza artificiale, i soldi e l’umanità intera sull’orlo del cataclisma, è prenderla alla larga.
Sottesa al clima generale da soap opera, c’è la riflessione sui traumi, sulla follia del denaro, persino sulla privacy e sul potere che le macchine “intelligenti” esercitano nella nostra – oramai – quotidianità. Tutto questo però si tinge di colori tenui, viene ignorato e dalla giuria e dal giudice: alla fine, ragione la ottengono comunque i traffici di baci, le relazioni extra-coniugali, il: “Ho appena visto mia moglie a letto con tua suocera”, la sempreverde concessione al vizio, alla “pazzia”, che fa dimenticare – a tutti, però – della contemporanea fine del mondo.
Bambi è a Chernobyl
Come nelle soap più classiche, il segreto sta tutto nel didascalismo dei dialoghi, delle situazioni e dei personaggi. E se, a volte, sembra che qualcuno di loro voglia iniziare un discorso esistenzialista, ricorsivo sui temi della stupidità e dell’avarizia umane, o anche su quello dei ricordi, dell’evanescenza della memoria, del tempo che scorre (“Hanno lanciato una bomba su Hiroshima e tutto è uguale”, per quanto riduttivo); si scade sempre, poi, nel commento enfatico, pleonastico, ingenuo, nelle frasi fatte e rifatte, che troncano sul nascere il pensiero (“E a Chernobyl è lo stesso. C’è una riserva naturale con volpi e cervi che scorrazzano. Bambi vive lì”).
Queste e altre ingenuità (“Tu mi hai detto chi è Babbo Natale!” – sbotta Asia (Alícia Falcó), offesa, contro il ragazzo che le ha ucciso la sorella – “Vattene e non farti vedere per tre giorni!” – perché tre? perché non quattro? – “A seguito della dichiarazione di questo testimone fondamentale” – dichiara davanti al giudice l’avvocato della parte lesa) disseminano il copione di postille, che si aggiungono a quelle sui protagonisti, monocolore, o bianco o nero (anche se il più è nero).
Qualcosa non va nel Kimera Underground Park
Qualcosa non va nel Kimera Underground Park. L’effetto che, in teoria, vorrebbe ottenere è qualcosa di simile a Squid Game di Hwang Dong-hyuk: vedere fino a dove l’essere umano è capace di spingersi, messo in una situazione di crisi. Cioè, a voler vincere a tutti i costi per aver salva la pelle; in un atto ignobile, a uccidere l’altro per sé. Nella pratica, però, ne Il rifugio atomico succede quasi l’opposto.
Nel primo episodio, dopo la violenta scossa sismica causata dal conflitto soprastante, tutti gli ospiti si rintanano nella Cupola, il luogo più sicuro del bunker, che somiglia più a una sala conferenze dell’Onu. D’improvviso, si avverte uno scoppio di petardo, le luci si spengono di colpo e si levano le grida di tutti, che rimangono seduti ai loro posti. Sembra una casa dell’orrore, ma quelle nei luna park, dove ti allacciano a un vagone sui binari. La messinscena di Minerva, comunque, funziona e comincia la sevizia psicologica. Tuttavia, senza preavviso, questa sembra passare in secondo piano. Non ci saranno più terremoti né tentativi di suicidio – il primo e unico è stato di una donna che ancora prima di entrare nel bunker coltivava l’idea di farla finita – a movimentare la situazione, che pare a un punto di stallo.
Vivendo nel lusso, nella vanità di sé e della ricerca del piacere, gli ospiti miliardari in tuta blu (contrapposti ai dipendenti di Kimera in tute attillate arancioni), si assuefanno alla loro attuale condizione, alcuni vi trovano lo spazio per dare mostra del proprio erotismo; altri, vi trovano la morte per amore. Vivere nella facility del Kimera Underground Park è un po’ come stare a galla in piscina. Ci si è ormai abituati al freddo dell’acqua, si galleggia nel piacere di galleggiare, si vive dell’abitudine di vivere. Ecco l’uomo fino a dove può spingersi: a fluttuare in un infinito chiedersi “c’è Inferno peggiore?”. Mentre, lui, galleggia e, un altro, annega.