Interviews

Intervista esclusiva a Kevin Spacey, ospite d’onore al Lucca Film Festival 2025

L’attore americano si racconta, tra aneddoti e curiosità

Published

on

In occasione della sua presenza come ospite d’onore al Lucca Film Festival 2025, Kevin Spacey si è raccontato alla stampa, rispondendo ad alcune domande. Tra curiosità e aneddoti, l’attore americano si è detto entusiasta di essere a Lucca, città che non aveva mai avuto modo di visitare.

Le differenze tra grande e piccolo schermo

Ripercorrendo, indirettamente e attraverso alcuni dei titoli più celebri, la sua grande carriera di successo, dalla consacrazione agli Oscar, Kevin Spacey ha anche parlato della differenza, secondo il suo punto di vista, tra i prodotti per il cinema e quelli per il piccolo schermo.

Se con una serie la narrazione può evolversi maggiormente perché si ha più tempo a disposizione e anche la possibilità di introdurre nuove idee che potrebbero poi dare frutti per molto tempo, stessa cosa non si può dire per il cinema. In House of cards, per esempio, già nei primi episodi c’erano le basi per qualcosa che sarebbe poi successo nella seconda o terza stagione. Ciononostante il mezzo utilizzato è sempre una macchina da presa e quello che un attore o un’attrice fa davanti alla macchina da presa è cercare di catturare dei momenti, a differenza del teatro.

E proprio a proposito del teatro la carriera di Kevin Spacey è una carriera che ha abbracciato tutte le forme d’arte, non solo cinema e televisione, ma anche il palcoscenico. E da questo alternarsi sulle scene ha ricevuto importanti lezioni, così come dai molti nomi che gli hanno dato fiducia fin da giovane. Uno su tutti Jack Lemmon che ha avuto il piacere di incontrare all’età di 13 anni in un workshop.

A Lucca per presentare 1780

Ospite d’onore del Lucca Film Festival, Kevin Spacey ha anche accompagnato la proiezione di 1780, al quale ha preso parte come attore. Un film che lo ha messo alla prova, come di fronte a una sfida perché è vero che ci sono molti film rivoluzionari (uno su tutti Il Patriota che è stato realizzato durante la guerra rivoluzionaria), ma non ci sono molti titoli che affrontano questo periodo pre-rivoluzionario. «Penso che sia stato un periodo molto interessante, anche perché era così minimo soprattutto in termini di posizione. Penso che sia stata un’opportunità quella di raccontare una storia attraverso i conflitti di questi personaggi».

Un personaggio, quello interpretato da Kevin Spacey che vive in condizioni estreme, costruito attentamente da tutta la crew e la troupe in una maniera che fosse il più corretta possibile per il periodo. E, a detta dello stesso Spacey, è stato interessante scoprire come potessero vivere le persone a quell’epoca in quelle condizioni.

Il cinema italiano per Kevin Spacey al Lucca Film Festival

Recentemente legato all’Italia, dal momento che è stato presente anche a Venezia, ma in veste di regista, alla domanda con quale personaggio (attore o regista) italiano vorrebbe collaborare ha fatto il nome di Luca Guadagnino, ma anche Paolo Sorrentino, senza dimenticare Alice Rohrwacher e aggiungendo un italo americano, Martin Scorsese.

Riguardo il cinema italiano in generale Kevin Spacey ha voluto ringraziare soprattutto Franco Nero che gli ha dato un’opportunità in un momento in cui non troppe persone credevano in lui e questo gli ha poi permesso di girare The Contract con Eric Roberts a Roma.

Il potere in House of Cards e non solo

Considerata la fama della serie con Kevin Spacey protagonista, è lecito domandare se sarebbe cambiata avendola scritta e diretta oggi. «Non credo che il potere cambi il comportamento umano – ha affermato Kevin Spaceye penso che se oggi si volesse realizzare una serie sulle stesse tematiche, la si affronterebbe in modo aperto, onesto e drammatico».

Kevin Spacey al Lucca Film Festival risponde alle domande di Taxidrivers

All’interno della cornice del festival, l’attore ha risposto a due domande esclusive di Taxidrivers.

Hai interpretato personaggi iconici in film iconici. Sei (stato) Lester in American Beauty, Roger ‘Verbal’ Kint ne I soliti sospetti, ma anche Frank Underwood in House of Cards. Tutti questi titoli sono iconici (i primi due possono essere considerati film cult) sin dal loro esordio. Come lavori su soggetti come questi, come ti rendi conto di interpretare un ruolo immortale? E partendo da questi personaggi, come sei riuscito a non rimanere intrappolato in un unico ruolo?

Per prima cosa grazie per la domanda. Penso che quando le persone mi parlano di quei film in particolare che hai menzionato per me è la cosa più soddisfacente in assoluto perché quando mi parlano di questi film parlano dei personaggi, menzionano i nomi. E per me è importante perché ho sempre desiderato questo, cioè è sempre stato il mio sogno che le persone uscissero da un teatro o da un cinema e ricordassero il nome del personaggio che ho interpretato e non il mio. Per me è sempre stato importante che fossero in grado di concentrarsi su quella persona che per loro era così vera che pensavano che fosse una persona reale.

Per quanto riguarda i personaggi iconici non penso mai direttamente a questo, nel senso che non penso mai a personaggi che sono in partenza cattivi o, appunto, iconici. Mi concentro soltanto sulle intenzioni, su quello che un personaggio cerca di fare e riuscirà a fare. A tal proposito, però, voglio citare un episodio con Sam Mendes che un giorno mi ha chiesto Quando è stata l’ultima volta che hai guardato L’appartamento?. Io risposi che l’avevo visto tante volte e che Jack Lemmon era il mio idolo. Lui mi disse Guardalo di nuovo stasera e poi domattina quando torni ne parliamo. L’ho rivisto concentrandomi soprattutto su Lemmon e quando ci siamo rivisti Sam Mendes mi ha detto la cosa più incredibile che poi è diventata l’obiettivo di American beauty e il mio mantra: ciò che è incredibile della performance di Jack Lemmon ne L’appartamento è che non importa cosa accade a lui, ma il fatto che lo spettatore non lo vede cambiare, ma evolversi e questo è ciò che ho bisogno di fare con Lester per American beauty.

Questa è stata una grande lezione che Mendes mi ha dato.

Ho notato la presenza di un elemento ricorrente in alcuni dei tuoi film. A partire da American Beauty, I soliti sospetti e House of Cards, c’è sempre un narratore. La tua voce è anche la voce fuori campo perché deve parlare al pubblico e far capire i pensieri dei tuoi personaggi. Come hai lavorato e in che modo essere un doppiatore ti ha aiutato?

È un’ottima domanda. E dopo che avrò raccontato questo aneddoto capirai anche perché. Stavamo lavorando ad American Beauty, e stavamo realizzando una serie di sequenze che poi sono state tagliate dal film. Io, con il mio personaggio, volevo volare, trasportando in questo i miei sogni. Non a caso all’inizio del film si vede la città e io volevo entrarci attraverso i miei sogni volando.

Un giorno Sam Mendes mi chiede di registrare la voce narrante, perché aveva bisogno di una sorta di guida per l’editore. Eravamo a cena, lui aveva un piccolo registratore e un microfono e lo scritto di quello che avrei dovuto dire. Ho quindi registrato il tutto come avevo immaginato e tutto in un’unica volta. Ecco, non l’ho fatto una seconda volta. Quella registrazione è quella che c’è nel film. Sam mi ha detto più tardi che in quel momento ero così libero, così puro, così innocente, e così vivo, che è stata la miglior versione fin dall’inizio. Non c’è stato bisogno di registrarne un’altra.

Sono Veronica e qui puoi trovare altri miei articoli

Si ringrazia Carlo Dutto, ufficio stampa del Lucca Film Festival, per il coordinamento dell’intervista e per le foto

Exit mobile version