Ortigia Film Festival

‘Silvia’, l’attesa di uno sguardo

Published

on

Presentato nel Concorso Internazionale Cortometraggi della XVII edizione dell’Ortigia Film Festival, ‘Silvia’ è il nuovo lavoro dei registi Rasha Kabso e Luca Salvi, una produzione belga di venti minuti che mette al centro la fragilità dei rapporti familiari, raccontata con un linguaggio essenziale e un’intensità che arriva al cuore con discrezione. Il cast vede in primo piano Antonella Meco, Michèle Hofmans e Diogo Consolado, interpreti capaci di reggere il peso di una narrazione fatta di silenzi e dialoghi semplici, ma totalmente reali.

Una casa come memoria di rancori e affetti

Tutta la vicenda si svolge dentro lo spazio domestico, che diventa contenitore di memorie e ferite. Silvia si prende cura della sorella anziana, Nadia, mentre l’assenza del figlio Diego è un’ombra che incombe. È un’assenza rumorosa, che si percepisce in ogni gesto e in ogni parola non detta. Quel messaggio lasciato in segreteria mostra bene la tensione: prima un invito a richiamare la zia, poi una ricerca di riconciliazione, lasciando da parte gli orgogli feriti, fino a una confessione involontaria, quasi trattenuta fino all’ultimo. «Sì, sono stata dura, a volte ingiusta… ma sempre tua madre.» È in questa battuta che il film concentra colpa, rimorso e amore: la madre non cerca di discolparsi del tutto, ma vuole almeno ricordare che, con tutte le sue mancanze, non ha mai smesso di esserci: la madre, la zia… la sua famiglia.

Quando il sogno diventa rifugio

Nadia sogna il nipote, lo immagina accanto a sé in momenti di quotidianità ormai lontani: guardare un film insieme o semplicemente parlare. Sono sequenze che assumono una forza particolare proprio perché nate dal desiderio di poter rivivere, anche solo in sogno, quella realtà che manca. In uno degli ultimi sogni, poco prima di morire, il nipote le promette che si riconcilierà con la madre: è una promessa che Nadia porta con sé come un saluto, un addio che placa in parte la sua attesa. Il sogno diventa così non solo un luogo di rifugio, ma anche di speranza, un passaggio simbolico che prepara la zia alla fine. La regia, quindi, sceglie di dare spazio a momenti apparentemente banali: la madre che cucina, la zia che ascolta la musica suonata dal nipote. Dettagli che non sono riempitivi, ma frammenti preziosi per comprendere la situazione. È qui che lo spettatore non resta più fuori: viene chiamato dentro, si sente parte di quel nodo familiare, come se stesse vivendo la stessa attesa e lo stesso dolore. Perché in fondo non è un dramma “da cinema”, è qualcosa che appartiene a tante famiglie comuni.

Un finale che non chiude

Quando Nadia muore, ci si aspetta che il sogno diventi realtà. E infatti, giorni dopo, Diego torna a bussare alla porta: Silvia indugia, sembra temere quell’incontro, si avvicina al vetro, si abbassa come per sottrarsi allo sguardo del figlio. Non apre, lo vede di spalle, pronto ad andarsene. Ma lui si gira… e la vede. Uno sguardo fugace tra i due e il film finisce lì. Non c’è riconciliazione spettacolare, c’è piuttosto l’onestà di lasciare aperta la domanda: fino a che punto siamo disposti a perdonare? Quanto spazio lasciamo alle possibilità non ancora vissute?

L’anima del festival

Il tema di quest’anno all’Ortigia Film Festival è “Cinema ed Eros. L’amore salverà il mondo”. Un richiamo che va oltre la dimensione sentimentale per arrivare al cuore stesso delle relazioni umane. Come ha ricordato la direttrice artistica Lisa Romano in un’intervista a Cinecittà News, «Ci sembrava doveroso declinare il tema di Eros, che tramite il cinema chiede un appello alla fratellanza». In questo senso ‘Silvia’ incarna davvero lo spirito del festival: racconta le emozioni più intime, le ferite comuni a molte famiglie, quelle che nascono dal rancore, dall’orgoglio e dall’incapacità di riconoscere i propri errori. Emozioni difficili, a volte ingiuste, ma purtroppo vere, comuni, umane.

Exit mobile version